sabato 27 febbraio 2021
Lunedì prossimo, primo giorno di marzo, secondo il fitto calendario di "giornate" proposto ogni anno dalle Nazioni Unite, sarà lo «Zero Discrimination Day», ovvero la Giornata contro tutte le forme di discriminazione. La si celebra dal 2014, e non va confusa con quella – di oltre mezzo secolo più vecchia – dedicata alla lotta contro la discriminazione razziale che, secondo lo stesso calendario, cade sempre a marzo, ma il 21. Dopodomani infatti, come spiega il sito italiano dell'Onu, si vuole sottolineare «il diritto di ciascun individuo di vivere con dignità una vita piena e realizzata. Il sesso, la nazionalità, l'età, la disabilità, l'origine etnica, l'orientamento sessuale, la religione, la lingua e ogni altra condizione umana non dovrebbe mai essere una causa di discriminazione».
È abbastanza sorprendente che l'Onu abbia sentito la necessità di aggiungere questa celebrazione al suo elenco soltanto sette anni fa, tanto più che tutti sappiamo come negli ultimi trenta o quarant'anni almeno, e nonostante la tragica lezione della prima metà del Novecento, le discriminazioni di ogni genere siano aumentate in modo più che preoccupante. Islamofobia, persecuzioni religiose, omofobia, violenza contro le donne, le minoranze, il rifiuto dei migranti, degli zingari, oltre all'eterno antisemitismo... Una realtà amara, che ogni giorno milioni di persone vivono sulla propria pelle, e che è stata da sempre al centro del magistero dei pontefici, dalla Rerum novarum in poi. Perché, come Paolo VI sintetizzò nella Populorum progressio, in ogni programma per lo sviluppo dell'uomo «non ha in definitiva altra ragion d'essere che il servizio della persona. La sua funzione è di ridurre le disuguaglianze, combattere le discriminazioni, liberare l'uomo dalle sue servitù, renderlo capace di divenire lui stesso attore responsabile del suo miglioramento materiale, del suo progresso morale, dello svolgimento pieno del suo destino spirituale».
Una denuncia costante, insistita, profetica. Durante il suo pontificato Giovanni Paolo II, soprattutto dalla fine degli anni Ottanta, fece più e più volte sentire la propria voce per condannare ogni forma di discriminazione, e ancora nel 2001 ricevendo il nuovo ambasciatore irlandese presso la Santa Sede disse che «la preoccupante rinascita di forme aggressive di nazionalismo e razzismo è una seria minaccia alla dignità umana e mette in pericolo la coesistenza sociale, la pace e l'armonia. La Chiesa condanna come contraria al volere di Dio qualunque discriminazione o vessazione di persona dovuta alla razza, al colore, alla condizione di vita o alla religione».
Un impegno che Benedetto XVI ha fatto suo e che Francesco, in continuità con i suoi predecessori – e non per fini "politici", o per un cedimento a logiche diverse dal Vangelo, come dicono i denigratori di Bergoglio –, ha confermato quasi quotidianamente in un instancabile sforzo di risvegliare le coscienze davanti a un fenomeno in crescita. Lo scorso anno, in un video-messaggio al «Global Compact on Education», disse che oggi serve una svolta culturale con l'impegno «a mettere al centro di ogni processo educativo formale e informale la persona, il suo valore, la sua dignità, per far emergere la sua propria specificità, la sua bellezza, la sua unicità e, al tempo stesso, la sua capacità di essere in relazione con gli altri e con la realtà che la circonda, respingendo quegli stili di vita che favoriscono la diffusione della cultura dello scarto». Che si aspetta? Iniziamo noi stessi a cambiare il nostro modo di pensare. Da subito.
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