domenica 9 novembre 2003
L'obbedienza senza libertà è schiavitù, la libertà senza obbedienza è arbitrio. Chi non ricorda il celebre "Obbedisco" che Garibaldi comunicò al generale Lamarmora che gli ordinava di ritirarsi dal Tirolo nel 1866? In realtà, l'obbedienza per essere una virtù deve accompagnarsi con la minor enfasi e recriminazione possibile. Il teologo Dietrich Bonhoeffer, ucciso dai nazisti nel 1945 a soli 44 anni, ci offre al riguardo una regola aurea che merita meditazione e soprattutto esercizio, non solo nella vita religiosa ma anche in quella sociale. L'obbedienza autentica deve sbocciare da una scelta libera, che può essere anche sofferta. Altrimenti è schiavitù. L'obbedienza ignaziana perinde ac cadaver, pur con una formulazione così forte e passibile di equivoco, va proprio nella stessa linea: una volta che tu hai scelto liberamente di aderire a un percorso, devi avere il coraggio della totalità e della radicalità, naturalmente sempre in ordine a quella scelta iniziale della coscienza. Appare, allora, evidente anche il risvolto del detto di Bonhoeffer: una conclamata libertà che non ammette confini, che non conosce il rispetto dell'altro e del valori è semplicemente arbitrio e anarchia. Spesso si bercia contro alcuni divieti e norme non per tutelare i sacrosanti diritti della libertà, ma solo per poter fare i propri comodi senza nessun ritegno o vincolo. Uno studioso dei comportamenti storici come Michel Foucault (1926-1984) nella sua opera Follia, l'assenza di opera non esitava a scrivere che «non esiste una sola cultura al mondo in cui sia permesso di fare tutto». Certo, l'equilibrio tra le due parti dell'asserto di Bonhoeffer è delicato: schiavitù e arbitrio sono sempre in agguato. Ma la persona matura ne è sempre consapevole e sa che obbedienza e libertà devono coesistere per una vera armonia sociale.
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