martedì 24 dicembre 2013
Milano, dicembre. Sabato in corso Vittorio Emanuele, nella folla, tra le luci del Natale, mi è caduto lo sguardo su una signora bionda sulla quarantina, ben vestita, senza alcun pacchetto in mano, sola. Mi ha colpito il suo sguardo, assente, come molto lontano da quella confusione festosa; tanto che mi sono voltata a osservarla mentre si allontanava lungo i portici, senza però guardare alcuna vetrina. Stranamente, ho registrato, la vista di quella sconosciuta era stata per me una trafittura sottile ma profonda, esattamente al centro del petto. Mia madre, ecco, quella donna aveva lo stesso sguardo di mia madre, in un lontano Natale; il primo dopo la morte di una figlia bambina. C'era stato, in quella vigilia, un pomeriggio in cui lei aveva cercato di farsi forza, e insieme eravamo andate in via Manzoni, tentando di convincerci che era, comunque, Natale. Ma vedo ancora la faccia di mia madre nel chiarore delle luminarie, quel suo volto pallido e impietrito nel dolore, tra la folla vociante e il suono delle zampogne; e i suoi occhi così lontani, e io incapace di ricondurla vicino a me, a noi – tra i vivi.Oggi, quarant'anni dopo, in una sconosciuta ho incrociato quello stesso sguardo. Allora ho pensato a cosa deve essere il Natale, per chi ha appena perso qualcuno di molto caro. Ho pensato cosa deve essere questa eco di canti, questo sfavillio di luci, questo preparare tavole a cui ci si ritroverà tutti assieme, quando a te manca un figlio, o l'uomo di tutta una vita. (Mi sono detta istintivamente: io scapperei, fuggirei in un posto dove non arrivi, del Natale, alcuna eco). Eppure, ho pensato subito dopo, l'unica vera speranza che resta a chi ha perso una persona amata è proprio che quel bambino sia nato davvero, a Betlemme, e che sia uomo e figlio di Dio. Soltanto in quel bambino che nasce, cresce, muore in croce e ritorna dalla morte, sta la promessa di ritrovare un volto perduto, vivo.E quindi oggi vorrei scrivere a chi affronta un Natale segnato da una inesorabile assenza. Forse no, non è scappando, che si soffre di meno. Forse invece proprio a chi è sezionato dal dolore occorre andare al cuore del Natale, alla sorgente di una memoria antica. Fare silenzio in sé e, nello strazio, contemplare quel momento, quel parto, quel primo vagito; certi che è nato il solo che ha sconfitto la morte. Così che il più doloroso dei Natali proprio in virtù del suo vuoto sia trasfigurato e colmato di speranza – l'unica, al fondo, vera.
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