Tricesimo è il paesino friulano dove per lunghi anni abitò Pierluigi Cappello, poeta scomparso sei anni fa dopo una vita difficile, trascorsa quasi interamente immobilizzato sulla sedia a rotelle a causa di un grave incidente motociclistico. Con tutto ciò non perse mai il sorriso riuscendo anzi a ricavare alimento espressivo dalla sua fragilità. Lo andavo a trovare scendendo dall’albergo Belvedere, sino in via San Francesco. Lui era sempre pronto ad accogliermi al piano terra del prefabbricato che l’Austria donò all’Italia dopo il tragico terremoto del 1976. Presto diventammo amici. A unirci erano Giuseppe Ungaretti, la cui trincea, sull’altura del San Michele, visitai negli stessi giorni in cui conobbi Pierluigi; la febbre vitale dei confini dove temprandosi si misurano le storie degli uomini e non a caso la sua radice profonda si trovava a Chiusaforte, quasi al confine con la Slovenia; una percezione atletica trascendentale che entrambi ritrovavamo nei racconti di Ernest Hemingway. Così ancora oggi quando rileggo Le belle lettere, m’identifico nella missione etica che Pierluigi Cappello assegnava alla letteratura: «Non per orgoglio del compito svolto / ma per orgoglio del compito / qualcosa rimane nel nostro dire / abbiamo inciso i nomi sul tronco folgorato, / siamo passati di lì».
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