mercoledì 2 luglio 2003
Inevrotici si lamentano della loro malattia ma la sfruttano a volontà, e se la si vuol togliere loro la difendono con le unghie e coi denti. Se lo diceva nientemeno che Sigmund Freud, il celebre fondatore della psicanalisi, bisogna crederci. In realtà, è un'esperienza facile da fare: tutti abbiamo conosciuto persone che sono attaccate alle loro malattie come a un possesso da tutelare, pur lamentandosene, imprecando contro di esse e implorando la liberazione. È questo il mistero di quel cuore umano che giustamente Manzoni definiva come un "guazzabuglio". Ci sono alcuni segreti interiori che noi stessi non riusciamo a dipanare, illuminare, portare a galla. Persino nella sofferenza scattano strani meccanismi che creano reazioni inattese fino al punto di piombare nel masochismo. In un verso dei suoi Auguri per il proprio compleanno il poeta Ungaretti esclamava: «Non mi lasciare, resta, sofferenza!». E se in questo caso le ragioni erano più di genere poetico, in molte situazioni vediamo persone avvoltolarsi nel loro dolore senza volerne più uscire, facendo pesare sugli altri il loro tormento e respingendo ogni mano che si stende per sollevare, confortare, sostenere. Ma c'è dell'altro. Talora si tratta proprio di nevrosi, di manie, di fissazioni che lentamente si inchiodano nella mente e nel cuore. E qui un po' tutti dobbiamo esaminarci perché forse c'è una fisima, un vezzo, un'ossessione, un capriccio che abbiamo così codificato da non accorgerci più persino del ridicolo o, per lo meno, del disagio che creiamo. Diciamo, allora, col Salmista: «Veglierò sulla mia condotta" porrò un freno alla mia lingua"» (39, 2).
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