sabato 23 aprile 2022
«Nemmeno una mosca», ha ordinato Putin al suo ministro della Difesa. Nemmeno una mosca deve uscire dai sotterranei della Azovstal di Mariupol, da quelle, le chiama Putin, «catacombe». E io non riesco a non pensare all'enorme città sotterranea dove si nascondono soldati, ma anche donne, vecchi, bambini. Mi immagino i corridoi bui e labirintici, e il frusciare dei ratti. Lo starsene, le madri, in uno stanzone affollato, in cento, nei pianti, nel tanfo di chiuso. E i bambini piccoli che se la fanno addosso, che vanno cambiati; e non asciuga mai il bucato, sottoterra, e non puoi mettere vestiti umidi a un bambino che magari ha già la febbre.
Mi viene in mente ancora Etty Hillesum, la ragazza ebrea morta ad Auschwitz, nelle sue “Lettere”, quando scrive di una mamma che deve partire con il suo bambino, dal campo olandese di Westerbork , per la “destinazione finale”: «Nel lavatoio c'è una piccola donna che regge una bacinella del bucato gocciolante. Si aggrappa a me, ha l'aria un po' spiritata. Mi riversa addosso un fiume di parole: “È impossibile, come è possibile, devo partire e non riesco nemmeno a fare asciugare il mio bucato per domani. E il mio bambino è malato, ha la febbre. E non ho abbastanza vestiti…”».
Mariupol non è l'Olocausto. Non è quella faccenda atrocemente pensata e pianificata. Ma: «Nemmeno una mosca». Penso alle madri là sotto, così simili a quella mamma di Westerbork. 80 anni fa.
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