martedì 30 ottobre 2018
Doveva essere l'inizio maggio, una di quelle prime notti tiepide che già profumano di tiglio, e come gravide di una promessa: verrà, l'estate. Lei ancora una volta aveva, la sera, chiuso le persiane affacciandosi e guardando in fondo alla via, dal lato della stazione. Nessuno. La faccia di mia nonna Aldobrandina china mentre serrava gli scuri, gli occhi bassi: nemmeno quel giorno era tornato. Lo aveva chiesto così tanto alla Madonna, che tornasse. Ma finora, niente. Un treno che veniva dal Nord si fermò a Parma, quella notte. La Russia, il Don, la fame, la convalescenza in ospedale. Ora era a casa. Sento i suoi passi sul marciapiedi della stazione, prima quasi barcollanti, increduli, poi ansiosi. Un orologio luminoso segna le tre. Nessuno in giro. Le strade, la scuola, le piazze dove mio padre scherzava con gli amici, immerse nel buio. Le finestre spente: i compagni dormono, o non sono tornati? I pantaloni laceri, le scarpe consunte. Ma quel profumo di tiglio insiste nell'aria, con la sua assurda promessa: la primavera, la vita da ricominciare. Bussò, quasi timidamente. Lei si svegliò subito. Schiuse la finestra. «Ciao, mamma», sentì. Di corsa giù alla porta, il cuore impazzito. La chiave dura nella serratura. Nella città buia e addormentata un abbraccio interminabile.
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