mercoledì 12 dicembre 2007
La medicina è la sola professione che lotta incessantemente per distruggere la ragione della propria esistenza.
Se dovessi scorrere la lunga lista degli amici che fortunatamente ho incontrato nella mia vita, riconoscerei che ci sono molti medici ai primi posti. Ho ammirato in loro la passione straordinaria che ha reso la loro non più una professione ma una vocazione; ho parlato spesso ai loro convegni, scoprendo il loro desiderio di andare oltre la semplice terapia per intessere col malato un rapporto più esistenziale. Il loro compito è paradossalmente
proprio quello che ho sopra descritto usando le parole di un giurista e politico inglese, James Bryce (1838-1922): il medico ha come meta ideale quello di diventare inutile, guarendo il paziente.
Sappiamo che, come accade per tutte le altre discipline, la debolezza corrompe ogni azione umana e così c'è una sterminata tradizione di sarcasmo nei confronti dei medici, non solo per la loro eventuale incapacità ma anche per la loro esosità: «Ne deve aver ammazzata di gente per essere diventato così ricco», fa dire Molière al suo Malato immaginario. Ma già i Vangeli ironizzavano sui medici a cui si era affidata l'emorroissa e lo stesso Gesù citava il proverbio: «Medico, cura te stesso!». A questo punto vorrei tirare una conclusione per ogni professione o vocazione. Fermi restando i limiti, i difetti, gli errori e anche i veri e propri crimini che si possono commettere, è necessario, da un lato, essere costantemente sorvegliati e attenti perché si coinvolge sempre un altro (questo non vale solo per la medicina ma per ogni altra attività). D'altro lato, c'è da allertare sempre anche la coscienza perché la moralità è decisiva e non una semplice foglia di fico per qualche comoda occasione. Il rigore non è solo proprio della scienza, lo è ancor di più per l'etica professionale.
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