sabato 21 maggio 2005
Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese. Venuto il momento, vorrei avere quell'attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità e, al tempo stesso, perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito.
Nove anni fa, proprio come oggi, il Gruppo Islamico Armato trucidava i sette monaci trappisti rapiti due mesi prima nel loro monastero di Notre-Dame de l'Atlas in Algeria. Il priore, fr. Christian de Chergé, aveva scritto nel suo Testamento spirituale le parole che sopra abbiamo citato. Esse sono la luminosa espressione di un cristianesimo puro e assoluto. Continuava a scrivere quel monaco: «Dopo la morte potrò immergere il mio sguardo in quello del Padre per contemplare con lui i suoi figli dell'islam così come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua passione, investiti del dono dello Spirito, sorgente di comunione».Ciò che vorrei celebrare in queste parole è, da un lato, la straordinaria larghezza di amore e di spirito, quella che il Nuovo Testamento definisce in greco makrothymía: essa vede il nemico con gli occhi stessi di Dio, suo e nostro creatore. E d'altro lato, la morte cruenta di questi trappisti è la rappresentazione del martirio, una categoria che spesso consideriamo remota e alonata di leggende. Essa è, invece, una realtà presente, una limpida testimonianza di morte per una fede che si è vissuta con amore e totalità e che meritava di essere vissuta.
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