“Mare fuori”, serie che allarma e svela
venerdì 25 settembre 2020
Una barca in mare aperto con sullo sfondo il Vesuvio. Al timone un uomo di mezza età. Alle vele alcuni adolescenti. Dopo di che si capisce, grazie soprattutto al rumore sinistro di cancelli che si chiudono, che quei ragazzi sono i detenuti di un carcere minorile e quell'uomo non è altro che un poliziotto penitenziario. Parte la sigla con una bella canzone in napoletano, O mar for: Mare fuori, appunto, come il titolo della serie di cui si parla, in onda il mercoledì alle 21,20 su Rai 2 (in anteprima su RaiPlay) per complessive sei prime serate con due episodi per volta. Quell'inizio è una sorta di contrappasso, anche se all'apparenza sembra il contrario. La pena per quei ragazzi è proprio quel mare che solcano in qualche rara libera uscita, ma che soprattutto vedono attraverso le sbarre delle loro celle. È il simbolo di una libertà a cui aspirano, ma di cui non godono per aver commesso reati di vario tipo. C'è chi come Ciro che ha sulla coscienza un omicidio a sangue freddo, è figlio di un camorrista e all'interno dell'istituto è il boss indiscusso. Ma c'è anche Carmine, che pur essendo cresciuto in una famiglia malavitosa voleva a tutti i costi cambiare vita, ma si è trovato anche lui ad uccidere per salvare la fidanzata da uno stupro. E poi c'è Filippo, un ragazzo della Milano bene che in gita a Napoli si rende responsabile di un tragico gioco in cui muore uno degli amici con cui era in viaggio. Sul fronte degli adulti ci sono soprattutto la nuova direttrice del carcere e il comandante delle guardie: regole severe da una parte, buon senso dall'altra. Ma qualcosa cambierà, lo si intuisce, la serie è lunga, tanti personaggi devono ancora entrare in scena, mentre degli attuali c'è ancora da scoprire il passato. Al momento possiamo dire che Mare fuori, al netto di qualche luogo comune e di qualche forzatura, è una serie interessante per il tema che affronta, la criminalità minorile, ma soprattutto per come lo affronta attraverso il microcosmo di un istituto di pena, facendo capire quanto sia labile il confine tra bene e male, che i ragazzi sono la manovalanza della malavita, che non sono violenti di per sé, ma sono vittime di un meccanismo dal quale non riescono ad uscire.
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