Ma l'arte non è generica creatività
venerdì 9 luglio 2021
Si dice arte, ma che ne è dell'arte? Che ne è (e sempre più ne sarà) della cultura artistica, delle attività artistiche, dei prodotti artistici? Negli ultimi anni mi è capitato spesso di notare che la debolezza o latitanza o silenzio della critica, attività non gradita e non prevista, ha debilitato e fatto scadere le arti, soprattutto le arti visive e la poesia: arti ormai senza critica e senza pubblico. Ma si può anche rovesciare il ragionamento. Quello che le arti sono diventate nel loro insieme, intese cioè come generica "creatività" diffusa, ubiqua, polverizzata, rende inutile e impossibile la critica. Se i critici tacciono, o giustificano sempre e non giudicano mai, è anche perché quelli che dovrebbero essere degli oggetti artistici solidi, durevoli, sono diventati liquidi o gassosi e di essi non si sa più che dire, né si sa quali possano essere i criteri di giudizio. La ripetizione, la replica, spesso in peggio, hanno sostituito la durata. L'estetica dell'effimero, inaugurata negli anni settanta del secolo scorso, era stata in parte anticipata dalla gestualità provocatoria o nullificante delle avanguardie storiche (futurismo, dadaismo, surrealismo). Ma rispetto al passato, l'estetica dell'effimero faceva un passo avanti anche rispetto alla pop art di dieci anni prima. Da allora in poi l'arte è soprattutto evento, provocazione, performance, intrattenimento, abbellimento che non esclude l'imbruttimento, interattività, trasformazione del pubblico in semplice presenza fisica e della critica in enfasi esplicativa a scopo pubblicitario. Non conta la qualità artigianale e culturale del prodotto, contano la firma e il prezzo, che di per sé garantiscono la stessa artisticità di oggetti che si presentano come artistici solo nominalmente. Nel lontano 1971 Eugenio Montale, il più classico, autorevole e studiato dei nostri poeti del Novecento, anche eccellente saggista e critico, scrisse del futuro delle arti in questi termini: sarà «un tempo di oggetti che non saranno né poesia né musica né pittura né teatro ma unicamente sé stessi e che saranno materia di rapido consumo e obsolescenza. In quel tempo però sarà del tutto inutile la critica». Queste parole si leggono nella prefazione che Montale scrisse al postumo Romanzo del Novecento di Giacomo Debenedetti. Quanto avviene oggi è stato perciò intuibile e intuito più di mezzo secolo fa. Ma se non serve alle maggioranze e se non frutta ai manager culturali, l'aver capito viene cancellato. Lo stesso Montale ormai è un nome, è un feticcio: quello che ha scritto importa poco.
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