giovedì 5 maggio 2005
Non vi è cosa più pericolosa di quell"assioma comune, che bisogna consultare lo spirito della legge. Questo è un argine rotto al torrente delle opinioni.
Questa volta la citazione posso prenderla attingendo alla libreria che sta alle mie spalle nello studio ufficiale del Prefetto della Biblioteca Ambrosiana. Qui, infatti, conservo il manoscritto autografo dell"opera Dei delitti e delle pene (ma il titolo originale è Delle pene, e delitti) che Cesare Beccaria stese nel 1764. La frase è interessante e ha al centro un tema di sua natura ambiguo, quello dello «spirito della legge» (si ricordi anche l"opera di Montesquieu, Lo spirito delle leggi, 1748). Da un lato, infatti, l"osservanza rigida e frigida della norma può diventare fonte di prevaricazioni e di ingiustizie: per questo sono state accolte nei vari sistemi giudiziari alcuni correttivi, come quello delle attenuanti.Un"applicazione letteralista delle regole - e questo vale anche per la religione - può essere disumana, come già ammoniva s. Paolo: «La lettera uccide, lo Spirito dà la vita» (2 Corinzi 3, 6). Detto questo, ha però ragione anche Beccaria che pure aveva una certa sensibilità se aveva proprio in quel libro combattuto la pena di morte come inutile e ingiusta. Infatti - e questo accade spesso ai nostri giorni - con buone intenzioni o con scelte discutibili si può rendere quasi inoffensiva la legge, appellando al suo spirito e cancellandone progressivamente il contenuto di giustizia. È necessario contemperare rigore e comprensione ma non fino al punto di far evadere impudentemente il cittadino al dettato sostanziale della norma. È giusta, quindi, la clemenza che non diventa lassismo.
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