Lo «spogliatoio» che non c'è più e l'arte della misura
mercoledì 9 novembre 2016
C'era una volta un luogo sacro per lo sport, si chiamava spogliatoio. Era una sorta di zona franca di proprietà degli atleti, dove poter essere liberi di sfogare tensioni, arrabbiature, condividere gioie, confidenze, custodire segreti. Un luogo dove molto spesso non entravano neppure gli allenatori, se non nel momento del discorso pre-partita.
Nello spogliatoio le cose nascevano, si risolvevano e lì, normalmente, restavano. Due figure ne garantivano, agli occhi dell'allenatore, la sacralità: il capitano, delegato al controllo della situazione una volta chiusa la porta, e il fisioterapista, le cui abilità (oltre a quelle di meccanico dei muscoli) erano misurate dalla sua capacità di fare da filtro a tutte le cose sentite lì dentro, decidendo in maniera autonoma che cosa fosse importante portare a conoscenza dell'allenatore e cosa, invece, fosse opportuno lasciare dentro.
Uso, mio malgrado, tempi declinati al passato non per un personale senso di nostalgia, ma perché ciò che una volta era lo spogliatoio, oggi non esiste più. Quel luogo è stato un po' svenduto e un po' violato da gente che ci entra fino a pochi minuti dalla partita, per riprendere maglie appese agli attaccapanni, atleti che si scaldano i muscoli, altri che si concentrano, altri ancora che si avvicinano al fischio d'inizio a colpi di gel sulla chioma. Telecamere e microfoni si sono impossessati del mondo dello sport: time-out, bordo campo, perfino microtelecamere messe in fronte agli arbitri: ne abbiamo viste e sentite di tutti i colori.
Ne ha sentita una anche un giornalista dall'orecchio sopraffino che pare abbia intercettato una frase del capitano della Juventus, Gigi Buffon, rivolta ai suoi compagni dopo la vittoria della sua squadra contro il Napoli. Non desidero tornare nemmeno un minuto sulla frase incriminata, sull'interpretazione di un verbo, sui botta e risposta successivi. Voglio invitare a riflettere su ciò che, negli ultimi dieci anni, è successo nello sport (e non solo).
Non esiste più alcuna dimensione privata, intima, che non solo sarebbe già di per sé un diritto, ma anche un modo, uno strumento, per costruire squadre e creare performance. Si passa molto più tempo a decifrare labiali, a origliare dietro alle porte, a scandagliare account su Facebook o Twitter dei protagonisti o delle loro mogli e fidanzate (ed è successo che qualcuno di loro, addirittura, prestasse il fianco a queste curiosità un po' morbose) che a guardare una partita o a commentare un gesto tecnico.
Tutto oggi deve diventare pubblico: uno sguardo, una parola, una frase, un urlo di rabbia. Un secondo dopo, ogni cosa viene masticata, difficilmente digerita, molto spesso risputata fuori da eserciti interi di commentatori da tastiera.
È un meccanismo malato, figlio di un modo di comunicare completamente nuovo e che ha poco più di dieci anni di vita. Sono molti di più, invece, gli anni di vita sulle spalle di coloro che oggi sono chiamati a raccontare lo sport e che con questi nuovi strumenti, non sono cresciuti e, di conseguenza, non sanno maneggiare. È come dare un bisturi affilatissimo a un chirurgo oppure metterlo nelle mani tremanti di un ubriaco. Lo strumento è lo stesso, gli esiti sono tragicamente differenti.
Bisognerebbe saper riconoscere, come sono capaci di fare i grandi pittori, quale sia l'ultima pennellata da dare al quadro. È l'arte della misura, del sapersi fermare. Un'arte che sa di buon senso, di sensibilità, del capire quando si sta per esagerare. L'arte, quando si vede una porta chiusa, del sapersi "scansare".
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