domenica 13 febbraio 2005
Uno domanda: «E poi, che cosa accade?». L'altro, invece, domanda soltanto: «Quello che faccio, è giusto?». Ecco, si distingue così il libero da un servo. È la prima domenica di quaresima: riusciremo almeno oggi a fermarci in silenzio per un po', guardando in quell'oscuro e segreto abisso che è la nostra coscienza? Ho scelto come stimolo per una riflessione una considerazione efficace e icastica di uno scrittore germanico che non so se abbia traduzioni in Italia: è Hans Theodor Storm, uno dei maestri della prosa tedesca dell'Ottocento. Egli traccia la linea di demarcazione tra l'uomo autenticamente libero e morale e colui che è servo, pur illudendosi di essere furbo e previdente. Quest'ultimo, infatti, si preoccupa solo del risultato vantaggioso o meno delle sue azioni. Tutto è computato secondo un criterio egoistico ed esteriore. La persona veramente responsabile e cosciente si interroga, invece, sulla moralità della sua azione, sulla correttezza etica dell'opera che sta per intraprendere, pronto a rinunziare anche a un vantaggio derivante, qualora l'atto in sé sia perverso. La vera ricompensa egli la cerca nella pace della sua coscienza, nella dignità della rettitudine, nella coerenza della sua vita. Questo gusto interiore si fa sempre più raro, non perché si voglia a tutti i costi violare le norme ma perché l'attitudine generale è quella dell'amoralità, dell'evitare ogni domanda scomoda, ogni autocritica, ogni capacità di rinuncia. Ci si crea, così, o una coscienza essiccata e sterile oppure la si rende così elastica da esser capace di coprire tutto, «chiamando bene il male e male il bene, cambiando la tenebra in luce e la luce in tenebra, l'amaro in dolce e il dolce in amaro», come ammoniva il profeta Isaia (5, 20).
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: