domenica 5 giugno 2016
Verso la fine del XVIII secolo è appena un piccolo villaggio potawatomi. Il suo nome viene dall'algonchino sikaakwa che significa “cipolla” o “palude”. Un luogo poco salubre, dove la storia non aveva edificato niente di duraturo: l'ideale per la costruzione di una megalopoli interamente nuova. Quando il capitalismo trionfante si stabilisce in questo crocevia tra l'est e l'ovest non vi trova nessun vecchio casamento che possa ostacolarlo. E a far piazza pulita ci pensa comunque il grande incendio del 1871. Sulla palude e sulle ceneri, di fronte allo specchio del lago Michigan, ecco sorgere la città nella fiera purezza delle sue linee. Il primo grattacielo è del 1885 – l'Home Insurance Building (demolito già nel 1931). Molti pensano che lo skyline di Chicago sia ancora oggi più bello di quello di New York. La Scuola di Architettura di Chicago è parte integrante dell'Armour Institute of Technology (oggi detto Illinois Tech), dal nome del principe di Porcopolis, Philip D. Armour, quello che proclamava che del maiale sapeva utilizzare «tutto salvo gli strilli». È dunque il sangue dei maiali e dei buoi, il denaro del loro abbattimento meccanico, che finanzia all'inizio l'inventiva di architetti preoccupati di farla finita con la pesantezza e di mostrare di saperla più lunga di Babele. Nel 1938, Ludwig Mies van der Rohe, ultimo direttore del Bauhaus, lascia la Germania nazista e diventa direttore dell'Istituto Armour. Mies è considerato tra i padri dell'architettura moderna, in particolare del cosiddetto “stile internazionale”. Affascinato sin da giovane dallo scheletro delle altissime torri in costruzione, vorrebbe lasciarle così, come un puro spazio fluido nel mezzo dello spazio. E così nel 1921, a 35 anni, disegna il primo grattacielo in vetro. Nel 1929, per il padiglione tedesco all'esposizione universale di Barcellona, inventa il piano libero che prefigura l'open space. Nel 1931, alla fiera dell'Habitat di Berlino, Mies propone la “Casa per celibe” che trova piena realizzazione nel 1946 nelle superfici vetrate della residenza secondaria del dottor Edith Farnsworth. Vengono in seguito gli edifici più importanti di Chicago, il Lake Shore Drive Appartments, il Crown Hall, l'Ufficio Postale di Loop Station, l'Ibm Building, il Dirksen Federal Building, il Kluczynski Federal Building… Dei parallelepipedi trasparenti o riflettenti il cielo, a riprova dell'integrità della loro struttura.Si attribuisce a Mies il motto minimalista: Less is more. Lo slogan attuale degli adepti della decrescita viene dal più importante architetto dell'ultra-crescita. Bisognava, secondo lui, sbarazzare gli edifici di ogni ornamento, cariatidi, bassorilievi, vegetalismi alla Gaudí, per entrare nell'affermazione semplice e design dei nuovi materiali e delle ultime tecnologie (si pensi alla sua celebre sedia “cantilever”, che non ha gambe posteriori; il suo sbalzo corrisponde alle proprietà fisiche dell'acciaio ma va contro l'immaginazione e l'intuito). «L'architettura – dice Mies – non è spaghetti (cioè Art déco) né bunker (cioè brutale), ma è sempre volontà di un'epoca tradotta in spazio». L'habitat non è pensato in termini di cultura, né di adattamento a un dato ordine cosmico. È essenzialmente volontarista. E quale volontà traduce il grattacielo eretto come un campanile senza cattedrale? Chiederselo è superfluo. Con ogni evidenza esso traduce il culto della volontà stessa, l'energia del self-made-men, la gloria di chi non ha antecedenti e pretende di essere solo figlio delle proprie opere. Non serve sapere bene l'inglese per leggere questa immensa linea di “i” maiuscole: I, I, I, “Io! Io! Io!”. Ecco cosa grida alto e forte il silenzio di questa architettura, così che le persone reali sono soltanto formicuzze che brulicano attraverso quegli Io eretti in modo gigantesco. Certo, Mies non ama il cemento: vuole che i suoi colossi siano aerei, umili, accoglienti, che non impongano forme massicce o narrative, ma che spariscano come gli specchi che allargano una stanza. E nonostante ciò, essi si strappano dalla terra e pretendono di elevarsi al di sopra della storia. Highways e high-rises segnano l'avvento di coloro che si agitano in un commercio senza memoria e sognano un mondo auto-costruito. Davvero, il grattacielo di vetro non è fatto per la famiglia né per l'artigiano. Lo “stile internazionale” si oppone nettamente al nazismo e al fascismo. Quelli sono nazionalisti, questo è internazionale. La loro architettura è pesantemente neo-romana, la sua è risolutamente contemporanea. Mies van der Rohe è l'anti Albert Speer. E tuttavia, prima di lasciare il Reich, egli tenta a più riprese di dimostrare che la sua visione architettonica manifesta più di ogni altra «l'essenza del lavoro tedesco». Lo scrive in una lettera al ministro della Propaganda: la sua architettura adopera «un linguaggio chiaro e suggestivo», «abbandona gli abbellimenti esterni per andare verso l'essenziale», e cioè verso il funzionale, poiché la «forma segue la funzione». Ma l'argomento più convincente lo enuncerà molto più tardi, con la sua frase sull'architettura come espressione della volontà di un'epoca. Leni Riefenstahl non aveva forse girato nel 1935 un film alla gloria del regime hitleriano intitolato Il trionfo della volontà? Si tratta qui della volontà del popolo, certo, non dell'individuo. E tuttavia è possibile sorprendersi a immaginare che, se Hitler non avesse avuto un tale cattivo gusto architettonico, lo skyline di Chicago sarebbe stato nei piani della sua Germania.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI