martedì 22 novembre 2005
I soldati che circondavano la santa e molti altri si lamentavano che una così bella fanciulla volesse affrontare la morte. Disse allora Cecilia: «Cari giovani, morire non è perdere la propria gioventù ma cambiarla in una migliore: è come dare fango e ricevere in cambio oro, abbandonare una vile dimora ed entrare in una preziosa e ornata. Il mio Signore rende il centuplo di quanto gli si dona». Ad abbellire il martirio di santa Cecilia - la giovane aristocratica romana che nel III sec. s'avvia serena alla morte pur di non tradire la sua fede - con queste parole così intense è la Leggenda aurea, composta dal vescovo di Genova Iacopo da Varazze, morto nel 1298, e diventata un classico della spiritualità per secoli. Quella di Cecilia è una lettura della morte come ingresso in un nuovo orizzonte di vita per celebrare un incontro col Dio tanto amato. Non è una caduta precipite nel nulla, ma il varcare la soglia di una dimora «preziosa e ornata», come diceva già san Paolo: «Quando verrà disfatto questo corpo, nostra abitazione sulla terra, riceveremo un'abitazione da Dio, un dimora eterna, non costruita da mani d'uomo, nei cieli» (2 Corinzi 5, 1). Ma, al di là di questo tema, che è pure connesso al mese tradizionalmente dedicato alla memoria dei defunti, c'è un altro aspetto che merita considerazione nelle ultime parole di Cecilia. È quello della coerenza radicale e assoluta con la scelta di vita e di fede che si è fatto: non si deve calibrare la scala dei valori solo sull'utile immediato, sul vantaggio e sull'egoismo che ci legano alle cose materiali. Si deve talvolta avere il coraggio di sacrificare tutto, anche l'interesse personale, per un ideale e per un valore più alto. E questo «perdere» - come insegna il Vangelo - è in realtà un «trovare» fino al centuplo.
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