venerdì 29 maggio 2015
Una sera di queste, tre giovani amici sui vent’anni mi hanno chiesto quali sono state le delusioni più grandi che ho vissuto. Siccome a chiedere erano dei giovani ho provato a raccontare il senso di frustrazione provato di fronte ai cedimenti, o tradimenti (una parola forte, ma in certi casi adeguata) di tanti di loro che, come si dice, non hanno mantenuto le speranze giustificate dai loro naturali talenti, dalla loro intelligenza. Parlo di coloro che, secondo la vecchia distinzione di un grande sociologo americano (Geismar, La folla solitaria), sembravano voler crescere pensando e scegliendo in autonomia, «autodiretti» e non «eterodiretti». Pochi hanno tenuto fede alle speranze che si potevano riporre in loro, e sintetizzando per i miei giovani amici ho concluso che le tipologie più frequenti nei loro cedimenti (ma in alcuni casi io li ho giudicati veri e propri tradimenti, soprattutto di se stessi), mi sono sembrate le seguenti. Uno, il più diffuso, la scelta della mediocrità, la paura della fatica che avrebbe comportato una postura più ardita nei confronti del contesto sociale, culturale, famigliare, la paura di trovarsi soli o tra pochi o pochissimi, la paura di venir giudicati diversi, di rischiare; e al contrario il bisogno di tranquillità, di una vita normale anche se banale. Quando si è trattato di giovani davvero in gamba, che avrebbero potuto dare molto di più di quanto non hanno dato, ne ho sofferto – ma ho cercato di capire, non ho condannato, anche se questo ha significato prima o poi perdersi di vista. Il secondo, la tendenza di tanti giovani, tra i più dotati che ho conosciuto, alla megalomania (Carmelo Bene la chiamava più giustamente micro-megalomania), e con questi non c’era davvero molto da fare. Pensavano di essere chissà chi e di non aver bisogno di nessuno, e per un po’ hanno illuso altri di essere così unici – ma la concorrenza era spietata, e li ho visti cadere, uno dopo l’altro, nevrotici e incattiviti per non avere avuto il successo sociale o artistico cui si credevano destinati. Una forma insopportabile di egoismo e di egocentrismo. Il terzo modo di cedere è quello dei veri furbi, e in questo caso non esito a usare la parola tradimento: partiti con l’aspirazione a contribuire al cambiamento in meglio del mondo, o quanto meno del proprio contesto, dopo le prime batoste si sono riciclati rapidamente mostrando una gran capacità di compromessi, politici culturali morali, e perlopiù hanno fatto carriera. Ho provato a frequentarli ancora per un po’, convinto che ci fosse bisogno di chi sapeva «entrare nelle istituzioni» per modificarle (la presunta «lunga marcia» del ’68) ma arrendendomi presto all’idea che non si trattava d’altro che di arrivismo e carrierismo, e di una banale forma di «individualismo borghese». Non so cosa avranno pensato di queste considerazione i miei tre giovani amici, e mi interrogo con un po’ di angoscia sulle scelte che dovranno fare anche loro, e sulle scelte che tutti noi dobbiamo continuare a fare.
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