mercoledì 20 agosto 2003
Chi entra in casa nostra ammiri noi piuttosto che le nostre suppellettili. «Qui domum intraverit nos potius miretur quam supellectilem nostram»: così è scritto sul portale di ingresso di una dimora storica che sto visitando. Nessuno dei turisti ammessi bada a quell'epigrafe né le guide vi fanno cenno. Si tratta di una frase del pensatore latino Seneca, nato in Spagna, a Cordova, e morto suicida a Roma sotto Nerone, per evitare un'ingiusta condanna capitale nel 65 d.C. Essa è presente in una delle sue lettere indirizzate all'amico Lucilio (5, 6) ed è una lezione attualissima anche ai nostri giorni, dominati dalle "suppellettili", cioè dall'apparenza esteriore, dall'abbellimento e dall'imbellettamento senza mai che si pensi all'approfondimento interiore. Vorrei, però, spingere in un'altra direzione questa considerazione. Siamo, infatti, continuamente strattonati dalla società contemporanea verso il consumo, verso cose non necessarie, verso oggetti di pessimo gusto: le nostre case si arricchiscono, sì, di suppellettili, ma si impoveriscono di umanità, di intimità, di spiritualità e persino di bellezza. Non sono più luoghi in cui si sosta quieti, come in un grembo sicuro; non si conosce più la sobrietà e il distacco; non si comprende più quali siano i veri valori. Tanto per stare ancora alla sapienza latina, c'era un motto - attribuito a vari sapienti e divenuto popolare - che affermava: Omnia mecum porto, «tutte le mie cose le porto con me». Era la ferma convinzione che le realtà esteriori, i beni materiali e la ricchezza sono del tutto marginali rispetto ai valori interiori, gli unici veramente necessari e indispensabili. Orazio, il famoso poeta latino, ha un bel verso che dice: Mea virtute me involvo, «mi avvolgo nella mia virtù» (Carmi 3, 29, 54-55).
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