giovedì 24 settembre 2020
Per alcuni miei amici non-social (ne esistono...), che non usano né Facebook né Twitter, posto le varie puntate di Slalom, dietro specifica richiesta, su Whatsapp. E spesso va a finire che le commentano. Tra i destinatari c'è anche un gruppo composto da miei ex compagni di classe del liceo. E proprio qui, un giorno, uno dei miei amici ha scritto una cosa che mi ha fatto molto pensare: «Da ragazzo e oltre ero un avido lettore dei romanzi di Urania, e queste note sembrano raccontare la vicenda di una nave spaziale in avaria, che via via si perde nel mistero dello spazio esterno».
Era la fine del 2019, e non ricordo quale fosse la puntata di Slalom che ha innescato questo commento, ma neppure credo sia importante. Perché l'immagine della navicella spaziale in avaria effettivamente sento che mi rappresenta. Da quando è iniziato il mio viaggio con la Sla ho perso il controllo della mia sala macchine, per così dire. Un dito, all'inizio, poi poco a poco altri pezzi prima cominciavano a fare le bizze e poi smettevano di funzionare, senza che nessuno dalla base potesse darmi aiuto nonostante i miei disperati Sos, "aiutatemi, vi prego, non riesco più a governar!". Una sorta di Apollo 13 senza speranza di lieto fine. Fino alla consapevolezza, o alla rassegnazione, che quello che avevo intrapreso era comunque un viaggio senza ritorno, senza nessuna possibilità di invertire la rotta. Con i vari pezzi che si staccano da me che passano davanti all'oblò prima di allontanarsi e perdersi per sempre. Vederli passare senza poterli fermare è di gran lunga la sensazione peggiore.
Dopo il commento di quel mio amico, il dibattito – chiamiamolo così – sulla chat è proseguito per qualche minuto, fino a quando qualcun altro ha commentato a sua volta: «Ma in fondo, alla fine, non è così per tutti?», o qualcosa del genere. Già, non siamo tutti, o non ci ritroveremo tutti presto o tardi come navicelle in avaria che via via si perdono nello spazio? Forse. Avrei voluto ribattere che qualche differenza c'è, ma non l'ho fatto. Perché ho imparato che la realtà della vita manda sempre gambe all'aria tutti i nostri ragionamenti, tutte le teorie, le nostre lucide analisi. Marcello, l'autore di quel commento ricordato all'inizio, è morto alla fine dello scorso luglio, all'improvviso. A maggio se n'era già andato Gianluca, marito di una mia collega, sconfitto dalla malattia proprio quando sembrava ce l'avesse fatta. E un mese dopo Marcello è morto Ingo, un altro amico molto caro, anche lui all'improvviso. Mentre Christine, altra amica, ha passato l'estate sotto una pesantissima chemioterapia, per tentare di combattere un male scoperto quando era troppo tardi. Le loro navicelle correvano molto più veloci della mia. Questo, però, non ci è dato saperlo.
(38-Avvenire.it/rubriche/Slalom)
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