Le lacrime di Ansou e l'Italia migliore
mercoledì 30 gennaio 2019
Ci sono immagini che raccontano la realtà mille volte meglio di quanto facciano delle parole messe in bell'ordine. L'immagine che scelgo, potente come un cazzotto nello stomaco, è quella di un ragazzo di colore, giovanissimo, che indossa una divisa verde da calciatore. Piange sommessamente con il viso fra le mani, sulla spalla del direttore sportivo della sua squadra. La scena non arriva dagli spogliatoi di un campo di serie A, quel ragazzo non ha sbagliato un rigore e quel direttore sportivo non è particolarmente elegante, anzi ha la faccia onesta e un po' stanca di uno di quei tanti volontari che regalano il proprio tempo e, spesso, il proprio denaro alle piccole società sportive di provincia. Gli accarezza la nuca, mentre parla davanti a una telecamera e a un cronista che gli sta chiedendo di raccontare la storia di Ansou Cissè, diciannovenne fuggito dal Senegal, arrivato prima a Lampedusa e poi al Cara di Castelnuovo di Porto.
Ansou è un talento sportivo che gareggia anche per l'Athletica Vaticana, la prima associazione sportiva della Santa Sede, ma che si è ritagliato un suo dignitoso posto nel mondo grazie ai gol segnati per una squadra di calcio di 1° divisione. Il bomber e il direttore sportivo della Castelnuovese sono lì abbracciati. Uno non riesce a fermare le lacrime, l'altro ha gli occhi lucidi, ma deve parlare, per forza e per amore.
Questo non vuole essere un articolo di cronaca: quella la trovate tutti i giorni sul nostro o sugli altri quotidiani, nei telegiornali, su centinaia di siti internet. Qui, a partire da un fatto di cronaca, si vuole arrivare a esprimere un'idea, un'opinione. Eccola, dunque, l'opinione: che piaccia o no (e che lo si voglia raccontare o no) lo sport è uno strumento di integrazione, straordinario, potentissimo e (ahimè per qualcuno) inarrestabile. In quell'immagine c'è l'aberrazione di un gesto senza spiegazioni, l'angoscia di un ragazzo strappato alla sua squadra e alle sue nuove, fragili, radici abbracciato a un uomo decisamente più avanti negli anni, decisamente più bianco, ma altrettanto angosciato. Il nostro pensiero, la nostra solidarietà, il nostro invito alla necessità di continuare a essere capaci di dimostrare umanità, va alle due persone immortalate in quella immagine. Tutte e due, insieme. Perché quell'immagine restituisce con chiarezza l'idea che solo nelle differenze c'è ricchezza (nel senso più completo del termine, ricchezza d'animo, prima di tutto). Questo mondo che già ha conosciuto l'aberrazione di chi pensa che gli uomini siano uguali, ma alcuni siano più uguali degli altri, reagisca, e anche in fretta. Reagiscano gli uomini di sport e dichiarino da che parte stanno. Infatti, oltre alla solidarietà ad Ansou Cissè e a Mario Monteleone, così si chiama il direttore sportivo della società di calcio di Castelnuovo, il pensiero va necessariamente a qualcuno che, in quell'immagine, non c'è.
Mancano altri trecento esseri umani, dello stesso colore di quel ragazzino, strappati anch'essi al loro quotidiano per finire chissà dove, senza neppure poter salutare. E mancano centinaia di migliaia di persone per bene come quel direttore sportivo che ogni giorno, di ogni settimana, di ogni mese, di ogni anno fanno sì che possa succedere che dei Yassim, Muhammad, Rasha, Farah fraseggino su dei campi da gioco con dei Francesco, Alessandro, Sara, Alice per fare un gol, una schiacciata, un canestro. Abbracciandosi, ridendo di gioia dopo esserci riusciti o con le lacrime agli occhi per non avercela fatta, ma sentendo sulla pelle, di qualunque colore essa sia, i brividi e la magia dell'essere una squadra. Alla faccia di ogni decreto ministeriale, l'Italia migliore, quella che ci regala sicurezza, fiducia e futuro, siete voi.
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