venerdì 27 dicembre 2019
Le riviste d'impronta religiosa e confessionale non sono il mio forte, ma tuttavia le seguo e vi trovo molto spesso ragioni di riflessione e di conforto. Di una di queste, veneziana con una lunga storia e che propone numeri a tema, mi piace la storia e mi piace molto il titolo, “Servitium”. La parola “servizio” mi ha sempre affascinato e convinto, ed è anche per questo che sono riuscito in passato a diventare amico di due “serviti” formidabili, padre Turoldo, irruente e talora un tanto retorico ma di trascinante sincerità, e soprattutto padre Camillo De Piaz (che ci teneva a dire che il suo non era un cognome nobiliare un'indicazione dialettale di origine geografica, De Piaz perché originario di Piazza, comune valtellinese). Con lui ho condiviso passioni e amicizie (per esempio con alcune donne di valore come Lucia Pigni, Camilla Cederna, Grazia Cherchi, Silvia Giacomoni...) e a lui ho pensato proprio in questi giorni, nell'anniversario di piazza Fontana, quando lo vidi – in pochi eravamo riusciti a valicare le mura del Monumentale oltre gli sbarramenti della polizia, proprio grazie a una mia astuzia di conoscitore del luogo – benedire la salma di Pinelli al suo funerale, mentre giovani anarchici cantavano Addio, Lugano bella. Un altro servita che ho molto amato senza aver avuto la fortuna di conoscerlo, è stato padre Vannucci, che fornì a tanti la conoscenza delle religioni e filosofie dell'Asia confrontandole con la tradizione cristiana. “Servizio” è una parola per me quasi magica, che indica una sorta di privata vocazione per il lavoro a cui ho finito per dedicare la maggior parte del mio tempo dagli anni 1960 a tutt'oggi, quello delle riviste. Perché le riviste? Per la fiducia nel lavoro di gruppo che collegasse generazioni, competenze, regioni – oggi di una difficoltà assai maggiore che in passato. Lasch ha chiamato i nuovi tempi “età del narcisismo” (io non penso solo a quello individuale ma anche a quello dei piccoli gruppi incapaci di collegarsi, di agire e premere insieme per una realtà più giusta e vera e bella...). Viviamo da “io minimi” convinti di essere ognuno indispensabile, centrale («io, io, io virgola io» è un ritornello ossessivo che prorompe anche da dietro le finzioni dell'altruismo). Mettersi insieme e lottare insieme è oggi quasi un'eresia, e chi “si mette insieme” lo fa per primeggiare e guidare, non per cercare e fare davvero insieme. Oggi il lavoro di una rivista è molto faticoso, a meno di essere interessati al successo accademico o al successo personale. Credere nel gruppo è quasi impossibile, e così cercare una coerenza tra dire e agire (ma che tipo di azioni? Ovviamente di disobbedienza civile, che è ciò di cui si avrebbe oggi più bisogno, per contrastare il dominio di denaro, violenza e “comunicazione”). L'idea del servizio, e penso al servizio intelligente, non solo generoso, non appartiene neanche a chi se ne fa vanto, e le riviste rimaste, online o di carta, hanno ben altre ambizioni, nel delirio degli «io penso che» e «io sì che...».
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