domenica 12 ottobre 2003
La serietà non è una virtù. Sarebbe un'eresia, ma un'eresia molto più giudiziosa, dire che la serietà è un vizio. Così quel provocatore nato che era lo scrittore cattolico inglese Gilbert K. Chesterton (1874-1936) nel suo saggio molto brillante e acuto Ortodossia. Naturalmente come tutti i paradossi, anche questo dev'essere preso con le molle. Ai nostri giorni, infatti, sarebbe da invocare un po' più di serietà di fronte a tanta impudenza nel contrabbandare banalità per assiomi, stupidaggini per verità, sguaiataggini per allegria. Tuttavia è sempre necessario saper smitizzare certe sicurezze pompose che, in verità, nascondono luoghi comuni, oppure dire chiaro e tondo che "il re è nudo", nonostante la prosopopea dei suoi discorsi e l'altezzosità seriosa del suo incedere. Nel suo Diario minimo Umberto Eco registrava questa battuta che ben si coniuga con quella di Chesterton: «Una delle prime e più nobili funzioni delle cose poco serie è di gettare un'ombra di diffidenza sulle cose troppo serie». E, dunque, importante ricordare che c'è un "troppo" anche nella serietà e forse il tanto vituperato buon senso può lanciare uno strale contro certe architetture di pensiero o certi comportamenti supponenti, destinati però a celare ben più modeste strutture interiori. E una delle imprese più ardue da compiere nei nostri confronti è quella di non prenderci troppo sul serio, di non considerarci così decisivi e indispensabili, di non ritenere che le nostre idee siano le più pertinenti, di non portare in giro una solennità che è in realtà solo vanità. In questi casi l'ironia diventa una virtù e la serietà un vizio, come voleva Chesterton.
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