domenica 2 dicembre 2018
Il primo figlio aveva poco più di due anni quando persi, al terzo mese di attesa, il secondo. Era inverno, alle cinque già buio. Le luci giallastre di una brutta via vicina alla Stazione Centrale. Noi due, usciti dallo studio medico, muti, spingevamo il passeggino. Salimmo in macchina e restammo fermi, ancora in silenzio, mentre le prime gocce di pioggia bagnavano il parabrezza.
Presi Pietro in braccio e mi misi a piangere. Lui, sulle mie ginocchia, mi guardò, profondamente stupito. Mai mi aveva vista piangere. Era sempre lui quello che piangeva, e io che lo consolavo. Rivedo il suo sguardo meravigliato, e poi come intento in un silenzioso, infantile ragionamento. «La mamma, strano, piange. Cosa fa lei, quando piango io?» E la sua mano timidamente si alzò, a farmi una carezza. La prima: la sua prima compassione. Commossa, gli baciai la mano paffuta.
Vedendo nella sua carezza il perpetuarsi nel tempo di una tenerezza antica: come mia madre accarezzava me, come mia nonna aveva accarezzato mio padre, così quel gesto si ripeteva nella mano di un bambino, uno che appena tre anni prima non era al mondo. Lo misi poi a letto, a casa, già sprofondato nel sonno. Chissà come sarai da grande, pensai, restando a contemplarlo. Eppure presentendo già in lui una cosa almeno: uno sguardo buono.
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