giovedì 27 ottobre 2011
Per noi spesso è dove non siamo che stiamo bene. Così, il passato – ove non siamo più – ci appare bellissimo.

«I veri paradisi sono i paradisi perduti»: è facile capire che a fare questa affermazione sia stato lo scrittore francese Marcel Proust che passò la sua esistenza «alla ricerca del tempo perduto», quasi fosse un'isola dei beati smarrita. La nostalgia lo attanagliava e lo faceva attendere non più l'alba del nuovo giorno, perché il suo volto era girato sempre verso il tramonto della giornata precedente, ormai irrimediabilmente trascorsa e ai suoi occhi alonata di luce dorata. In modo più realistico, un altro grande scrittore come Anton Cechov nel testo sopra citato ci fa capire, invece, che questo rimpianto del passato è illusorio, frutto di una vera e propria deformazione della nostra ottica spirituale. Di solito si evoca la moglie di Lot come simbolo negativo: «essa guardò indietro [verso Sodoma e Gomorra coperte da una coltre di zolfo e fuoco] e divenne una statua di sale» (Genesi 19,26). Come emblema positivo di un ritorno alle radici perdute è, invece, esaltato l'Ulisse omerico.
Sta di fatto che camminare col viso rivolto indietro in una permanente deprecazione del presente, incapaci di progresso e chiusi in un cupo circuito di malinconia, è alla fine una malattia della psiche (la «nostomania», dicono gli psicologi), ma anche dello spirito che si raggela e cristallizza, perdendo ogni dinamismo e bloccandosi in un pedante conservatorismo. È, però, necessario anche spezzare una lancia in difesa della nostalgia. Senza passato si è ben miseri, senza memoria non si riesce a progredire, senza radici si è smarriti e sperduti. Ed è proprio questo il rischio che stiamo correndo oggi, smemorati come siamo di un passato che ci potrebbe invece illuminare, eccitare e potenziare.
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