La mitica grandezza di Buenos Aires negli occhi del giovane Borges
sabato 26 aprile 2008
Con meraviglia, ammirazione, giovanile trasporto e una certa emozione ho letto La misura della mia speranza di Jorge Luis Borges (Adelphi). È una piccola raccolta di saggi brevi uscita nel 1926, quando l'autore aveva ventisette anni e che più tardi ha ripudiato. Questo mi fa capire perché non mi ha mai convinto il Borges maturo e anziano, il Borges disincarnato e universalista che contempla le distese infinite di un tempo aldilà del tempo, in cui tutto è polvere, ombra e illusione, puro segno dal significato inafferrabile. Questo Borges che ha conquistato fama internazionale nella seconda metà del Novecento, sembra un Borges in maschera sublime, un autore troppo costruito e autocensurato, libero del peso della propria realtà personale, un Borges prigioniero della sua mistificazione.
Forse lo ha portato a questo la perdita progressiva della vista. I suoi occhi vedevano ombre. Ma il suo rifiuto del colore locale e il suo europeismo non sono soltanto una forma di disperazione. C'è anche uno snobismo culturale e metafisico alla T. S. Eliot. Il giovane Borges patriottico e passionale è comunque più simpatico, più umano. La misura della mia speranza inizia con frasi come queste: «Voglio conversare con gli altri, con i ragazzi attaccati a questa terra e nostri, che non sminuiscono la realtà di questo paese. Il mio argomento di oggi è la patria (") La nostra realtà vitale è grandiosa e la nostra realtà pensata è miserabile (") Ormai Buenos Aires, più che una città, è una Nazione e bisogna trovare la poesia e la musica e la pittura e la religione e la metafisica adatte alla sua grandezza. Questa è la misura della mia speranza». Borges rifiuta gli argentini che si riducono a essere «quasi nordamericani o quasi europei», cioè «quasi altri». Perché, come scrive nell'ultimo saggio del libro, «tutta la letteratura è autobiografica, alla fine». E non vale la metafora strabiliante, ma quella «ben collocata nella realtà».
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