martedì 10 luglio 2007
Ho sempre pensato che sullo schermo bisogna mostrare il minimo per ottenere l'effetto massimo sul pubblico. A volte è necessario mostrare un po' di violenza, ma soltanto se vi è una forte motivazione.
Per chi, come me, ama i gialli d'autore è una desolazione imbattersi nei thriller americani, coi loro eccessi di cadaveri, di violenze, di improbabili trame perverse. È per questo che oggi propongo la testimonianza di un grande maestro del cinema in un testo intitolato Hitchcock secondo Hitchcock: il celebre regista inglese coi suoi perfetti meccanismi di ritmo e di tensione, coi suoi misteri inquietanti non aveva bisogno di litri di sangue e di carni squarciate per mostrare in profondità il senso del male, il fascino oscuro e tragico del delitto, la crudeltà e la bontà della creatura umana.
La sua osservazione, però, mi permette di puntare su un argomento di indole generale. Ai nostri giorni, soprattutto nella comunicazione, si è perso il gusto della misura, della discrezione, della regola, dell'equilibrio. La musica dev'essere sguaiata, il parlare si trasforma in urlato, le relazioni si fanno aggressive, l'eccesso è norma nel comportamento. È per questo che si diventa sbrigativi, superficiali e volgari. La sapienza latina col celebre detto oraziano est modus in rebus («c'è una misura delle cose») ci insegnava che è solo calibrando con saggezza emozioni e azioni che si può raggiungere un risultato, proprio come accade in natura ove sono di regola le stagioni, i tempi, le attese, le pause. Aveva ragione Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, quando ammoniva che "ogni eccesso reca in sé il germe della propria auto-soppressione" (così in Inibizione, sintomo e angoscia).
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