giovedì 10 novembre 2011
Chi si mette in mostra da sé non verrà mai in luce, chi si approva da sé non verrà considerato, chi si vanta da sé non avrà valore, chi si gloria da sé non sarà glorificato.

Ieri siamo idealmente migrati all'interno di un mondo estraneo che sta divenendo consueto anche per noi, quello arabo, con la figura simbolica di Giuha. Oggi incontriamo un'altra civiltà che si è prepotentemente affacciata in Occidente, quella cinese, e anche qui mettiamo in scena un personaggio un po' reale (visse attorno al VI-V secolo a. C.) e un po' mitico, il pensatore Lao-tsu con la sua Regola celeste. La sua è una pacata ma severa scudisciata sulla vanagloria, variante un po' ridicola del vizio capitale della superbia. L'aspetto più patetico della vanità è proprio il rischio di cadere, senz'accorgersene, nel comico e nella macchietta. I vanitosi allargano la ruota del loro orgoglio come pavoni, per usare un'immagine già adottata dal poeta latino Ovidio il quale sferzava la persona presuntuosa come laudato pavone superbior, più superba di un pavone lodato.
Abbiamo tutti incontrato nella vita uomini e donne, anche intelligenti, che non sanno resistere a questo vizio: se non lo fai tu, ci pensano loro a celebrarsi con esiti imbarazzanti che essi però non avvertono e vanno avanti dando mano alla manovella dell'auto–elogio senza rossore. I verbi usati da Lao–tsu sono significativi: mettersi in mostra, approvarsi, vantarsi, gloriarsi. C'è in essi tutta la storia di politici, di cattedratici, di generali, di manager, di potenti e persino di ecclesiastici e così via. Ma a questo punto, attenzione: come ammoniva La Rochefoucauld, «ciò che rende la vanità degli altri insopportabile è che offende la nostra». Il vecchio rabbino stava morendo – racconta un apologo giudaico – e tutti ne tessevano i meriti. Alla fine la moglie vide che si agitava. Accostò l'orecchio alle sue labbra e sentì: «Nessuno ha lodato la mia grande umiltà!».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: