giovedì 3 marzo 2011
Quando un popolo non ha più un senso vitale del suo passato, si spegne. Si diventa creatori anche noi quando si ha un passato. La giovinezza dei popoli è una ricca vecchiaia.

Cesare Pavese appuntava questa parole nel suo diario, Il mestiere di vivere, il 6 luglio 1939,
in un periodo storico in cui il passato era celebrato dal fascismo in modo magniloquente e retorico. È per questo che l'aggettivo fondamentale è quel «vitale» che egli assegna al ricordo collettivo. Anni prima - era il 1920 - nel libro Filologia e storia il critico Giorgio Pasquali ammoniva che «chi non ricorda, non vive». Pavese commenta idealmente quell'asserto attribuendo alla memoria una forza «vitale» e creatrice ed è per questo che giunge fino al paradosso (ma lo è veramente?) finale: il futuro di un popolo non è tanto in una massa di giovani frementi ma scarsamente dotati di valori, di conoscenza, di eredità culturale, bensì in una vecchiaia ricca di quel mirabile patrimonio che essi e i loro padri e antenati hanno prodotto e custodito.
Un pensatore illustre come Montaigne nei suoi Saggi era convinto che la memoria fosse «lo scrigno della scienza», perché non si può cominciare mai da zero, pena la dissoluzione della civiltà. La memoria è capitale anche per la cultura in genere: noi - per usare la famosa immagine di Bernardo di Chartres - siamo nani sulle spalle di giganti, e solo per questo vediamo più lontano di loro. La memoria è alla base della fede, tant'è vero che l'appello biblico per eccellenza è: «Ascolta!... Ricorda!», e «memoriale» è chiamata la Pasqua, un evento del passato che opera ancora oggi in noi. Ed è per questo che Cristo nella cena eucaristica ripete: «Fate questo in memoria di me!». Il passato è come una sorgente che alimenta il fiume del presente e ci spinge verso il futuro.
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