La macchina globale nell'intuizione dell'utopista Volponi
venerdì 11 aprile 2014
C'è qualcuno che ricorda un romanzo intitolato La macchina mondiale? Lo ha scritto Paolo Volponi ed è uscito nel 1965.Volponi è un narratore di cui si parla poco. Alcuni nuovi critici (come Emanuele Zinato, che ha curato per Einaudi le sue opere complete) lo hanno studiato e apprezzato. Ma oggi mi pare che la nuova narrativa lo ignori. Penso in particolare a quel romanzo, ora che sono vent'anni dalla morte di Volponi, perché ha un titolo che più passa il tempo e più è adatto a definire il mondo globalizzato. Quella in cui viviamo è proprio un'enorme, complessa macchina a funzionamento (semi)automatico all'interno della quale le scelte che vengono offerte agli esseri umani, individui, comunità, nazioni, organismi internazionali, sono scelte sempre più limitate. Stare dentro o stare fuori non è un problema perché un fuori non c'è, o così sembra. Viene quotidianamente, sistematicamente suggerito che anche stare un po' dentro e un po' fuori è impossibile, quindi immorale. È la grande macchina che lo impone, è la macchina mondiale, globale e locale ("glocale" dicono certi sociologi, senza un brivido di "umor nero").Il protagonista del romanzo di Volponi è un filosofo-contadino che sta scrivendo un trattato parascientifico. Nel risvolto di copertina (scritto dall'autore, credo) si dice che quel personaggio non è un pazzo e che vive e lavora nella campagna di Urbino. Volponi amava la campagna della sua Urbino, ma aveva lavorato alla Olivetti, una delle fabbriche italiane allora tecnologicamente all'avanguardia. Aveva fatto inchieste e interventi in Abruzzo e a Matera ("capitale del mondo contadino") dove conobbe Carlo Levi e Rocco Scotellaro. Dunque nella mente di Volponi aveva preso corpo un filosofo ingegnoso, visionario, paranoide nelle cui riflessioni si ricomponevano in unità la cultura della terra e la civiltà delle macchine. Da un lato una razionalità nelle cui reti tutto va programmato e controllato. Dall'altro, una vita e vitalità elementare, naturale, premoderna. Quel sogno-incubo del filosofo di campagna, quell'utopia che regola l'intero mondo e ogni essere umano («con il sigillo di una meccanica che è sinonimo di Dio») è un sogno suicida. Poiché ogni utopia nasce dall'ira e produce nichilismo.
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