sabato 23 marzo 2013
Fuenlabrada, Spagna, 2011 - «Bisogno di un miracolo? Chiamaci». I manifesti di una setta evangelica tappezzano questo hinterland di Madrid. A Fuenlabrada, in effetti, di miracoli sembrano servirne parecchi. Qui le ondate di immigrazione - dall'Est, dalla Cina, dall'Africa - si sono stratificate fino a formare un tessuto in cui ognuno è, per l'altro, straniero. Ogni balcone delle torri di cemento ha la sua parabola: la sera, dalle finestre echi di cento lingue diverse. Babele, era così?C'è una chiesa: l'han costruita negli anni 60, bassa come un'officina e senza campanile, né campana. Ora una campana ce l'ha, e la corda la tira la mano nerissima di un sacrestano africano. Il parroco, don Antonio, missionario della Fraternità San Carlo, è italiano, figlio di calabresi, cresciuto alla periferia di Milano. Un uomo solido, un' ancora in questo mare di frontiera.Come Babele, Fuenlabrada sgomenta chi la guarda. Però, mi accorgo, quanti bambini: in passeggini spinti da madri russe, arabe, cinesi. E che occhi, hanno: luminosi, in uno stupore lieto. Guardando la madre sorridono e ciangottano i primi monosillabi - che sono assolutamente uguali.Anche a Babele c'è un idioma universale. Lo parlano i bambini, finché sono molto piccoli. Memoria di un mondo anteriore, vergine - non infranto, ancora.
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