venerdì 27 agosto 2004
Nel villaggio di Pumei, nella Cina meridionale, è stato individuato un linguaggio segreto unico al mondo, parlato e scritto solo dalle donne e incomprensibile ai maschi. Era il nushu, tramandato per secoli dalle madri alle figlie, cantato nelle stanze di casa, destinato a trasformarsi in testo nel Libro dei tre giorni, il dono nuziale per le spose tre giorni dopo le nozze. Sorprenderà questa scelta: cito, infatti, l'avvio di un articolo che mesi fa ho ritagliato da un quotidiano americano, il Washington Post. La scoperta di una lingua declinata solo da donne ci permette, però, una duplice riflessione, l'una negativa e l'altra positiva. Da un lato, è drammatico che le donne debbano ricorrere a un linguaggio del tutto esclusivo per potersi esprimere liberamente, in una società che le considera emarginate e minorate (nelle campagne cinesi - ma non solo - è ancor oggi frequente il caso di considerare una sfortuna la nascita di una bambina). Il ricorso a una lingua tutta al femminile è, allora, il segno di un isolamento, simile all'autismo, è un'autodifesa che rinchiude a riccio, quasi in un mondo alternativo. D'altro lato, però, c'è anche l'aspetto positivo. È la capacità di ritrovare una propria fierezza e autonomia da parte di chi è emarginato. C'è, infatti, il linguaggio degli esclusi - come accadeva agli schiavi afroamericani - capace di diventare un vessillo di dignità, un fremito di coraggio, una forma di ribellione pacifica all'umiliazione, un'espressione di libertà e di tutela della propria identità e intimità. È la forza dello spirito e della cultura che permette di vivere, nonostante tutto.
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