venerdì 10 marzo 2006
La guerra santa è fatta di dieci parti: una parte consiste nel guerreggiare contro il nemico, le altre nove stanno nella guerra contro se stessi. Il termine arabo jihad usato per indicare la «guerra santa» ha in realtà una genesi "ascetica": denota, infatti, anzitutto la lotta contro se stessi. È ciò che ci insegna con questo aforisma Sufyan ibn 'Unaynah, grande maestro musulmano, vissuto alla Mecca ove morirà nell'814. Di lui si narra che a quattro anni sapesse a memoria il Corano e che vivesse solo di un pane d'orzo al giorno. Ho proposto questo suo motto, desumendolo dalla bella raccolta di Vite e detti di santi musulmani, curata da Virginia Vacca (Utet 1968), perché ben s'adatta alla sostanza di ogni spiritualità e alla pratica quaresimale, permettendoci anche di scoprire la genuina religiosità dell'Islam, spesso deformata da luoghi comuni occidentali e da comportamenti insensati di certi suoi adepti (minoritari ma chiassosi e, purtroppo, pericolosi). Ad essi (ma non solo) si potrebbe applicare un'altra battuta di questo mistico: «Un'epoca in cui la gente ha bisogno di persone come quelle, è una brutta epoca!». Ma ritorniamo a questo monito, sempre vero e necessario, sul controllo di sé, sul dominio delle passioni, sulla vittoria nei confronti dei vizi. Seneca aveva già dichiarato che «comandare a se stessi è la più alta forma di comando» (imperare sibi maximum imperium est). L'ascesi ha qui il suo nucleo ed è un impegno spesso disatteso, nella convinzione che siano altri i doveri primari della spiritualità. «Vincere se stessi è la più bella vittoria», si diceva nell'antichità pagana. Questa dovrebbe essere anche l'insegna di una morale cristiana che ha in sé motivazioni ancora più alte per vincere orgoglio ed egoismo.
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