domenica 21 maggio 2017
Nella Domenica del Buon Pastore, la terza di Pasqua, la Chiesa prega per le vocazioni sacerdotali. L'immagine è evangelica: il pastore in mezzo alle pecore allude a Cristo e, attraverso di Lui, al prete tra i suoi fedeli. Questo richiamo è così vecchio, così venerabile, che ci si dimentica che si tratta di un'immagine e che il vescovo, strettamente parlando, non è un pastore (altrimenti a me, che sono la sua pecorella, basterebbe belare). Così, i seminari e le facoltà di teologia si onorano di dispensare corsi di "pastorale" mentre in aula non ci sono pecore, né capre, né cani (in senso stretto, certo, perché, in senso figurato non saprei dire) e la pedana del professore non è un grasso pascolo. Ma qual è la validità di questa immagine oggi? Ora che i rognoni di agnello sono venduti avvolti in cellophane nei supermercati, può esserci ancora un buon pastore?
Già nella Repubblica, quando Socrate usa l'immagine del pastore per parlare di un buon governante della Città, Trasimaco lo schernisce: «Dimmi, Socrate, ce l'hai una balia? Perché tu supponi che pastori e bovari guardino al bene delle pecore o dei buoi, e li facciano ingrassare e se ne prendano cura, guardando a qualcosa di diverso dal bene dei padroni o di loro stessi». Il buon pastore si preoccupa della pecora smarrita, la strappa alle fauci del lupo, certo, ma lo fa perché non sfugga al bancone della macelleria. Può chiamare ciascuna delle sue bestie per nome; ma fa tuttavia più in fretta marchiandole con un numero sull'orecchio: questo facilita la loro registrazione al macello e offre al consumatore una perfetta tracciabilità.
Replicando a questa obiezione alcuni diranno che non bisogna mai sviluppare troppo una metafora. Occorre fermarsi al momento giusto, quello in cui il pastore riporta la pecora sulle sue spalle, e non spingersi fino al momento in cui tutto si rovescia e lo stesso pastore consegna la pecora a chi la sgozzerà. Tuttavia, questo sarebbe dare troppo credito all'osservazione di Trasimaco. Gli si concederebbe che il pastore mira innanzitutto alle costolette e che, contrariamente a quanto sottolineano le Scritture sarebbe come un mercenario. Soprattutto si separerebbe lo spirituale dal materiale, l'immagine dalla sua realtà, rendendosi complici della virtualizzazione generalizzata del mondo. Il buon pastore non avrebbe assolutamente niente in comune con un vero pastore. I veri pascoli potrebbero allora essere asfaltati e trasformati in zona commerciale senza che questo cambi di una virgola la pastorale dei vescovi, anche se probabilmente converrebbe abbandonare l'immagine del buon pastore a vantaggio di una domenica del direttore commerciale di un supermercato.
Socrate si sforza di mostrare a Trasimaco la mancanza di rigore che c'è nella sua definizione: «Tu pensi che il pastore si occupi delle sue pecore senza preoccuparsi del loro bene, ma solo in funzione della succulenza della loro carne, come un buongustaio che prepara il suo pranzo, o ancora in funzione del profitto della vendita, come un mercante e dunque non come un pastore». Il pastore in quanto pastore non è un produttore di carne. Lo scopo del suo mestiere è il benessere dei suoi animali fino al punto di vivere con loro, sopportando una grande solitudine rispetto alla società degli uomini. Non vedere questo fine del pastore (la sua finalità) sarebbe la fine del pastore (la sua morte) perché non potrebbe più essere buono. Ora è precisamente ciò che accade nei nostri tempi utilitaristici. Gli allevamenti industriali hanno fatto sparire il vero allevatore. L'industria dei prodotti a base di carne è nata solamente a vantaggio di una "ontologia borghese", come dice Robert Spaemann: «Per Socrate, l'arte del macellaio non definisce l'arte del pastore. Ora, il mondo moderno ha cambiato tutto questo. Adesso, è il mercato che prescrive il modo di allevare gli animali, e l'allevamento non ha più come scopo il loro benessere, così che la protezione degli animali appartiene ora a un punto di vista esterno all'allevamento e deve giustificarsi dal di fuori». La figura unificata del buon pastore si divide in due figure antagoniste, quella del produttore di carne che si accontenta di fare affari e quella del difensore degli animali che si limita a fare della morale. Così che la morale non è più quella del mestiere stesso, non scaturisce dalle sue esigenze e dalla sua probità, ma è qualcosa di estrinseco che viene imposto come un valore a un lavoro ingrato che in sé non implica nessuna attenzione. Questa ontologia borghese implica prima di tutto una certa "inversione teleologica": il pastore si occupa delle pecore per mangiare, questo pare indiscutibile agli occhi dell'utilitarista, incapace di pensare che al contrario si possa mangiare per occuparsi delle pecore. Gli basterebbe riflettere un po' per accorgersi che nutrirsi di carne è un'attività che abbiamo in comune col lupo e la tigre, mentre la cura degli animali è un'attività specificamente umana e che la nostra dignità si ricollega a essa. Certamente, il pastore non è vegetariano né vegano; ma bere il latte, vestirsi di lana, mangiare le costolette con gratitudine e malinconia sono fatti che segnano la vita comune con le pecore e la celebrazione della transumanza, più divina del trans-umano. L'ontologia borghese ignora che «le cose sono non solamente dei fini per sé, ma anche dei fini naturali in sé». La sua riduzione teleologica non riconosce altro scopo nella natura che l'auto-conservazione. Per essa la forma animale non è uno splendore che bisogna poter contemplare, ma una semplice funzionalità: l'ala e la melodia dell'uccello sono per la sua sopravvivenza, e non la sua sopravvivenza per la meraviglia del volo e del canto. Perciò, la sola legge della natura è quella del ciascuno per sé, e la nostra auto-conservazione può a buon diritto diventare predatrice degli altri esseri viventi. Ma il buon pastore non è un buon consumatore: dà la sua vita per le sue pecore (Gv 10 11). La sua grandezza non consiste nell'abbuffarsi di fricassea acquistata all'ipermercato, ma è vivere nei campi e di vegliare di notte facendo la guardia al gregge (Lc 2 8). Ed è là che l'angelo del Signore annuncia la grande gioia di Natale.
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