domenica 15 aprile 2007
La gloria è simile a un cerchio nell'acqua che non cessa mai di allargarsi, fino a che, a causa del suo stesso ingrandirsi, non si disperde in un nulla. Siamo nei giorni della gloria pasquale: questo termine, che è usato dal Nuovo Testamento per esaltare il mistero del Cristo risorto, sfolgorante nella luce infinita ed eterna della sua divinità, velata prima dalla sua umanità terrena, ci permette una riflessione di indole più generale. Nella Bibbia col vocabolo «gloria» - in ebraico il termine corrispondente kabôd denota qualcosa di pesante, incombente, grandioso; in greco doxa evoca piuttosto un'apparizione luminosa, un'epifania - si vuole definire appunto il mistero di Dio, la sua realtà trascendente. Questa parola, però, è stata applicata anche all'uomo ed è spesso una sorta di miraggio che ti fa compiere atti mirabili o infami pur di poterla in qualche modo acquisire. Ma, a questo punto, ecco la verità della frase che sopra ho citato dal dramma Enrico VI (I, 2) di Shakespeare. Quante volte da bambini abbiamo gettato un sasso in uno stagno per assistere a quel fantastico diramarsi di cerchi che s'allargavano sempre più ma che erano destinati alla fine a spegnersi. Effettivamente la gloria è proprio un gioco affascinante che si allarga maestosamente. Tuttavia - spesso senza che ci si accorga - quel cerchio luminoso è votato a estinguersi e, così, alla fine ci si trova in un'isoletta sperduta, lontana da tutti, come il Napoleone della storia. E se questo non accade subito, sarà forse dopo un po' di anni, nell'oblio del tempo. Cerchiamo, allora, un tesoro più solido della gloria umana, un tesoro nascosto nel bene semplice e quotidiano.
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