La forza di attrazione del fascismo e i rischi nella nostra democrazia
venerdì 5 maggio 2017
Del termine e della categoria politica, perfino morale e psicologica, di fascismo, dopo la fine del fascismo in Italia con il 1945, si è spesso abusato. Quella parola è stata lanciata addosso agli avversari "non di sinistra" come un corpo contundente, un'etichetta infamante e liquidatoria, una definitiva condanna "in ultima analisi", cioè quasi sempre "senza analisi". Certo, il fascismo in Italia, come il nazismo in Germania, è stato una malattia nazionale, ha fatto parte della nostra autobiografia storica. Se così non fosse, non si spiegherebbe l'adesione al regime di Mussolini di scrittori e intellettuali come D'Annunzio e Pirandello, Giovanni Gentile e Filippo Tommaso Marinetti: autori inconciliabili nella cui opera e attività, tuttavia, l'ideologia e lo stile fascisti sono stati per certi aspetti anticipati o previsti. Non meno, anzi più interessante ancora, è l'adesione a quel regime dittatoriale e culturalmente "totalitario" da parte di schiere di professionisti, insegnanti, burocrati, militari, religiosi, artisti di ogni genere, studiosi e scienziati. Se c'è stato un limite culturale piuttosto grave nell'antifascismo esibito e d'obbligo che si diffuse dopo il 1945, è stato il non aver fatto capire la forza di attrazione di un tale regime nell'arco di un ventennio. Invece si deve parlare di totalitarismo, e non solo di dittatura repressiva e persecutoria, altrimenti si dimentica che la "fascistizzazione" di un'intera società esercitava una forza di suggestione e di convinzione gregaria che non era semplicemente coercitiva. Ribellarsi a un tale regime politico quando tutta la vita sociale ne era impregnata, avrebbe richiesto una certa dose di eroica fermezza. Su questo e altro, un libro assolutamente da leggere è Intellettuali. Cultura e politica tra fascismo e antifascismo, di Angelo Ventura (Donzelli), che non concede nulla a semplificazioni e schematismi: «L'atteggiamento degli intellettuali di fronte al fascismo è tema complesso e delicato, che tocca i nervi scoperti più sensibili della coscienza nazionale, riluttante a fare i conti fino in fondo con questo inquietante periodo della sua storia, che coinvolge la responsabilità collettiva di tutto un popolo». E oggi? Nelle nostre attuali libertà è tutto vero e genuino, o c'è anche qualcosa di conformistico, inerte, dogmatico? Non siamo forse responsabili di quanto c'è di pericolosamente antidemocratico nella nostra democrazia?
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