sabato 11 giugno 2022
A Winston Churchill che gli chiedeva quante possibilità di successo avesse lo sbarco in Normandia, il generale Bernard Montgomery diede una risposta piuttosto brutale, perfino cinica, ma sincera. Overdlord, disse usando il nome in codice dell'operazione, «deve riuscire», perché se fosse fallita, la Gran Bretagna non sarebbe più riuscita a schierare un solo reggimento. Il fondo del barile era già stato raschiato. Overdlord andò bene, ma solo per una di quelle combinazioni che difficilmente si ripetono. Andò bene grazie soprattutto, forse, all'ottusità di Hitler, convinto fino all'ultimo che il vero attacco sarebbe avvenuto a Calais, e che anche dopo l'inizio dello sbarco non volle spostare le truppe, ritenendo quello che stava succedendo solo «un diversivo». Contro il parere di Erwin Rommel, da pochi mesi al comando delle truppe nel nord della Francia, il quale era convinto invece che l'invasione sarebbe iniziata dalla Normandia, tant'è vero che aveva ordinato di rafforzare le difese del Vallo Atlantico. Fosse stato al suo quartier generale, forse Rommel all'inizio dello sbarco avrebbe anche potuto disobbedire al dittatore (come aveva già fatto un paio di volte in Africa) e spostare da Calais le divisioni corazzate dislocate lì. Ma non c'era, perché quel 6 giugno del 1944 era a Berlino per il compleanno della moglie e portarle il suo regalo, un paio di scarpe rosse. Quando ritornò in Francia, due giorni dopo, ordinò a due divisioni corazzate di spostarsi in Normandia, ma era già troppo tardi.
L'Europa, compresa la Russia, come si sa uscì a pezzi dalla Seconda guerra mondiale. Molte città furono cancellate dalle carte geografiche, rase al suolo. A parte Spagna (dove le ferite della guerra civile erano ancora ben aperte), Portogallo e Svizzera, e in parte la Svezia, in tutte le nazioni il conflitto aveva lasciato solo cumuli di macerie e montagne di cadaveri. L'apocalisse, si pensò allora, non si sarebbe ripetuto mai più, la lezione era stata fin troppo dura. Per tutti, vincitori e vinti. E invece la stessa storia s'è ripetuta, nei Paesi dell'ex Jugoslavia, in Kosovo. E anche ora, in Ucraina, dove la guerra scatenata da Mosca ha già superato i tre mesi e mezzo. E ancora non si vede un barlume di luce in fondo al tunnel, e anzi ogni giorno che passa lo spettro di un'estensione del conflitto, fino allo sconvolgimento totale, si fa più cupo.
È questa la preoccupazione costante di Papa Francesco, che ancora domenica scorsa, giorno di Pentecoste, ha osservato come «a cento giorni dall'inizio dell'aggressione armata all'Ucraina, sull'umanità è calato nuovamente l'incubo della guerra, che è la negazione del sogno di Dio: popoli che si scontrano, popoli che si uccidono, gente che, anziché avvicinarsi, viene allontanata dalle proprie case». E mentre «la furia della distruzione e della morte imperversa e le contrapposizioni divampano, alimentando un'escalation sempre più pericolosa per tutti, rinnovo l'appello ai responsabili delle Nazioni: non portate l'umanità alla rovina per favore! Si mettano in atto veri negoziati, concrete trattative per un cessate il fuoco e per una soluzione sostenibile. Si ascolti il grido disperato della gente che soffre – lo vediamo tutti i giorni sui media – si abbia rispetto della vita umana e si fermi la macabra distruzione di città e villaggi nell'est dell'Ucraina. Continuiamo, per favore, a pregare e a impegnarci per la pace, senza stancarci». Continuiamo tutti, senza stancarci.
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