martedì 23 novembre 2004
Una cornacchia presuntuosa si agghindò di penne di pavone e si mescolò a quegli splendidi uccelli. I pavoni la riconobbero e gli piombarono addosso per strapparle di dosso quella maschera ingannevole. «Smettete - gridò la cornacchia - avete già riavuto il vostro!». Ma i pavoni, vedendo le penne migliori della cornacchia, risposero: «Taci, miserabile, che anche queste potrebbero non essere tue!». E continuarono a beccare.Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781) fu drammaturgo, critico, pensatore tedesco ma scrisse anche Favole in tre libri (Sellerio) dalle quali abbiamo estratto questo racconto la cui morale è evidente. La vanità è un vizio che si ripercuote malamente su chi lo pratica. Costui, dopo aver provato l"ebbrezza dell"esaltazione, precipita nell"abisso dell"umiliazione. Entrambi gli estremi sperimentati sono falsi, sia quello della glorificazione sia quello dello sbeffeggiamento che spesso va ben oltre la realtà del vanitoso, proprio come accade alla cornacchia che perde pure le sue penne nere lucenti, travolta dall"inganno che si era costruita con la sua illusione e la sua vanagloria.Eppure la vanità continua a giocare a tutti brutti scherzi perché, almeno in un angolino dell"anima, distilliamo questo sottile piacere tentando prima di esaltarci coi sogni e poi cercando di aureolarci all"esterno. Nel Riccardo III Shakespeare ci ammoniva in modo limpido e forte su questo rischio: «La frivola vanità, cormorano insaziabile, non esita a pascersi di se stessa» (III, 1). Illusi dal nostro orgoglio avanziamo pavoneggiandoci, e le nostre orecchie sono turate così da non udire i sarcasmi degli altri e, alla fine, non siamo più capaci di distinguere la lode dall"ironia, il successo dal ridicolo. Vorrei finire con una forte battuta del romanzo I miserabili di Victor Hugo: «Lo zero, non volendo andar nudo, si vestì di vanità».
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