giovedì 10 agosto 2017
È noto che le opere più importanti per descrivere gli orrori del nazismo sono il Diario di Anna Frank e Se questo è un uomo di Primo Levi, mentre per quanto riguarda il comunismo Arcipelago Gulag di Solzenicyn e I racconti di Kolyma di Salamov. Ma se si vuole fare i conti con entrambi i volti del male assoluto che ha condizionato il Novecento è preferibile leggersi Vita e destino, drammatica epopea che contiene al contempo un fortissimo anelito alla libertà e un'analisi spietata dei totalitarismi. Autore ne è Vasilij Grossman, sulla cui figura è necessario spendere alcune parole. Nato a Berdicev in Ucraina, di origine ebraica, fu per lungo tempo al servizio della patria sovietica e durante il secondo conflitto mondiale si fece reporter al seguito dell'Armata Rossa. Descrisse la battaglia di Stalingrado e la progressiva reazione all'avanzata nazista in territorio russo, attraversando poi l'Ucraina, la Polonia e giungendo a Berlino nel 1945.
Nel suo lavoro di corrispondente di guerra vive due momenti capitali: viene a sapere della tragica sorte della madre, vittima degli Einsatzgruppen nella sua cittadina, Berdicev, e con i suoi occhi vede gli orrori del campo di sterminio di Treblinka. E finisce per prendere coscienza della violenza inaudita che ha colpito gli ebrei; non solo, col passare del tempo si rende conto di un'altra amara verità: anche la Russia li odia. In Ucraina molti abitanti non ebrei hanno collaborato con l'occupante nazista in quella che è stata definita “la Shoah delle pallottole”. Nella sola Berdicev trentamila ebrei erano stati fucilati e gettati nelle fosse comuni dai battaglioni tedeschi e molti di essi erano stati “venduti” dagli stessi ucraini. Tutto ciò rifluisce in Vita e destino.
Impossibile riassumere la trama del romanzo, che ha visto la luce nel 1980 in Occidente dopo essere stato vietato in Urss (nel frattempo Grossman era morto, nel 1964). Due episodi sono sufficienti a farne capire l'eccezionalità. In primo luogo la lunga lettera inviata dalla madre al protagonista del romanzo, lo scienziato Viktor Strum: undici strazianti pagine in cui essa racconta al figlio la deportazione che la popolazione ebraica di Berdicev stava subendo. La sofferenza è data non solo dalla violenza nazista, ma dalla presa d'atto della cattiveria dell'essere umano. Esemplificata dalla moglie del portinaio dell'edificio in cui abita che esclama: «Grazie a Dio è la fine per i giudei», o dalle due vicine di casa che si mettono a discutere su chi di loro si sarebbe presa i suoi mobili. Si legge ancora: «Come fu triste il viaggio, figlio mio, nel ghetto medievale. Camminavo per la città nella quale avevo lavorato per vent'anni (...). In questi giorni tremendi il mio cuore si è riempito di tenerezza materna per il popolo ebraico». Grossman, al contrario del personaggio Strum, non riceverà nessuna lettera dalla madre e sentirà sempre come un peso insopportabile non aver avuto più nessuna notizia di lei: solo quando riattraverserà l'Ucraina assieme alle truppe sovietiche dovrà prendere atto della sua morte.
L'altro passo fondamentale è la conversazione notturna che si svolge nel lager fra Liss, un ufficiale della Gestapo, e Mostovskoj, un intellettuale comunista fatto prigioniero dai nazisti. Grossman immagina un lungo soliloquio del comandante tedesco in cui perora la causa del Terzo Reich e soprattutto vuole convincere l'avversario della somiglianza estrema dei due sistemi, quello nazionalsocialista e quello comunista: «Quando ci guardiamo in faccia l'un l'altro, noi guardiamo uno specchio. A voi pare di odiarci, ma vi pare soltanto: odiate voi stessi in noi»; «Oggi noi siamo guardati con orrore e voi con amore e speranza? Mi creda, chi ora guarda con orrore noi, guarderà con orrore anche voi. Noi siamo le forme differenti di un unico essere, lo Stato partitico»; «È nella nostra Notte dei lunghi coltelli che Stalin ha trovato l'idea delle grandi purghe del '37».
Due episodi che riflettono gli elementi sostanziali dell'opera: la condanna dei totalitarismi, l'anelito alla libertà e l'importanza delle persone semplici, capaci in molti casi di diventare Giusti andando oltre le ideologie. Come nel caso della donna russa che offre un pezzo di pane a un soldato tedesco fatto prigioniero dopo la battaglia di Stalingrado, proprio mentre il giovane nazista teme di essere linciato.
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