venerdì 16 marzo 2018
Due libri recenti mi hanno riportato alla mente storie del mio parentado. Vengo da una zona di migrazioni, e ho vissuto da vicino quelle del secondo dopoguerra, per la quantità di amici di infanzia e di scuola e di parenti stretti che lasciarono l'Italia cercando fortuna (fortuna? piuttosto sopravvivenza, dignità) in altri Paesi, nel nord Europa, nelle Americhe, in Australia. Come non pensare alle loro difficoltà, ma anche ai modi in cui vennero accolti nei Paesi ospitanti, di fronte alle ondate migratorie recenti che sconvolgono il pianeta, e ai modi così spesso barbarici in cui noi, popolo di migranti, accogliamo i migranti che sbarcano ora sulle nostre rive? Uno dei due libri, accompagnato da foto "disabitate", interni o esterni senza persone vive, ma non per questo vuoti della loro presenza, è Respirano i muri (Contrasto). Le foto, molto belle, sono di Massimo Siragusa, i testi di Paolo Di Stefano, che è stato figlio di migranti (da Avola, provincia di Siracusa, in Ticino e in Brianza). Di Stefano è giornalista al "Corriere" e ha scritto alcuni romanzi molto "giusti" sul tema delle migrazioni italiane. Tema del libro sono le case, ma sono anche case che hanno rappresentato il sogno e il rifugio di tanti migranti. Sarà per le foto e per i colori tenui dei muri avolesi, ma questo libro ha qualcosa in comune con un grande album a fumetti della Coconino Press/Fandango, Macaronì di Thomas Campi e Vincent Zabus, le cui immagini sanno cogliere la luce del Nord (del Belgio) con una delicata ma calorosa tenerezza. Vi si narra - e chiaramente si tratta di sollecitazioni nate dall'esperienza - del rapporto tra un bambino e il nonno paterno, nevrotico vedovo solitario che vive di ricordi e del sogno di un "ritorno a casa", nel nostro Sud, non fosse che per morirvi. Lentamente, con l'aiuto del padre, che lo ha portato dal nonno anche in ragione della sua crisi di coppia, il bambino comincerà a comprendere e ad amare lo scorbutico uomo, ad apprezzare il suo contesto e le sue storie, ad aprirsi alle sue confidenze e ai suoi rimpianti. È davvero un bel libro, questo Macaronì. Per chi non lo sapesse, "macaronì" era un modo di chiamare gli italiani nel Belgio dove arrivarono a migliaia a lavorare in miniera, non solo dal nostro Sud, anche dall'Italia centrale, dal Veneto - ché le zone depresse non erano un tempo soltanto meridionali e l'esperienza del migrare hanno dovuto affrontarla anche tanti genitori dei leghisti di oggi. In Francia ci chiamavano invece "rital", ma ci accoglievano, ci permettevano di entrare degnamente in una nuova storia. La prefazione gli autori l'hanno chiesta a un vecchio signore, Salvatore Adamo, anzi Adamò come dicevamo in Francia, che fu negli anni cinquanta e sessanta la voce degli italiani emigrati in Francia, Belgio, Lussemburgo, Germania. Non un grande cantante, ma una bella persona che fu molto amata, e di questo gli sono grato, anche dalle nostre madri. Ne parla spesso Vinicio Capossela, figlio di emigranti e cresciuto ad Amburgo.
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