venerdì 18 luglio 2014
«Così tutti amavano Siddharta. A tutti egli dava gioia, tutti ne traevano piacere. Ma egli, Siddharta, non procurava piacere né gioia a se stesso». È un passaggio fondamentale, in un romanzo famoso di Herman Hesse. In queste poche righe lo scrittore, soffermandosi sul protagonista, il nobile Siddharta, facente parte della casta più alta dell'India, destinato a regnare, è colpito dall'unica forma di angoscia meravigliosa che esista: l'angoscia metafisica, la brama dell'assoluto. Che il principe vive radicalmente, e che agirà drammaticamente e positivamente nella dimensione religiosa, nel contesto brahminico e buddista dell'India in cui è inscenato il romanzo.Angoscia che suona assoluta, pari al senso di vuoto disperato di Cavalcanti e del poeta stilnovista in genere, proprio mentre canta la donna amata: l'angoscia dell'insufficienza umana. Siddharta ha tutto, e soprattutto è amato e dona amore; non è solo un privilegiato, è anche un uomo buono. La sua stessa bontà gli pare soffocante, insufficiente, insopportabile. Per fare del bene a se stesso deve andare oltre al bene fatto agli altri. Deve farne di più, assolutamente. Questa è l'angoscia metafisica dell'uomo, che provoca lo sgomento di fronte alla grandezza inarrivabile del divino, e, con parole nostre e di Hesse - non di Siddharta, che non è cristiano - del creato.
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