sabato 10 settembre 2005
Di colpo il vento mi portò dal villaggio l'odore dell'incendio e in quell'odore
rivissi ogni ricordo: le vendemmie, le nozze, le danze, le veglie, i funerali, i lamenti, ciò che la vita semina e la morte raccoglie. Ma dove sono le brevi gioie d'un tempo: il riverbero dei vetri, il nido della rondine, lo stridere d'una chiave dentro la serratura, il raggio di sole che indora la porta di casa? Continuiamo, come abbiamo fatto ieri, a evocare canti e tradizioni dei popoli dell'Est. Questa volta abbiamo coinvolto la Croazia, una nazione che conosciamo anche grazie ad uno dei suoi migliori poeti contemporanei, Ivan Golub. I versi che ho citato appartengono, però, a un altro poeta, Ivan Goran Kovacic (1913-1943), e sono il canto della tragedia vissuta dalle varie nazionalità dell'ex-Yugoslavia, coi loro odi interetnici che le hanno rese un po' tutte vittime e carnefici al tempo stesso. Facile è intuire il tema del testo sopra presentato: l'incendio del villaggio porta al poeta per l'ultima volta le reliquie della memoria dolce e quotidiana del passato distrutto. Ecco, vorrei proprio fissare l'attenzione sul ricordo, una dotazione che tutti abbiamo a livello personale e comunitario. La civiltà attuale è "smemorata", immersa com'è nell'immediato e nella frenesia del futuro: non per nulla si sono perse per strada le nostre radici cristiane. Eppure, come diceva il critico Giorgio Pasquali, «chi non ricorda, non vive». È necessario ritrovare quel tesoro di valori e di sentimenti che abbiamo ereditato, non per conservarli in una biblioteca o in uno scrigno, ma per riattualizzarli così che riscaldino ancora il cuore, orientino la vita, diano senso al nostro procedere nella storia.
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