giovedì 20 luglio 2017
«Oggi ho letto a lungo, ho pattinato tre ore in una luce viennese ascoltando la Pastorale, ho pescato un omul', ho raccolto mezzo litro di esca, ho guardato il lago dalla finestra attraverso il fumo di un tè nero, ho dormito sotto i raggi del sole delle quattro, ho segato un tronco di tre metri e preparato una provvista di legna bastante per tre giorni, ho preparato una buona kasa, una specie di porridge, l'ho mangiata e ho pensato che paradiso era nella somma di tutte queste cose». Suscita invidia la descrizione di una giornata di solitudine raccontata da Sylvain Tesson, giornalista e scrittore parigino, indomito viaggiatore abituato a imprese di ogni tipo, dal giro del globo in bicicletta alle scalate di cattedrali e grattacieli. Nel 2014 il suo spirito di avventura poteva costargli la vita: è caduto infatti mentre si stava inerpicando sulla facciata di una casa a Chamonix, dove si trovava per scrivere un altro libro, Beresina (uscito l'anno scorso da Sellerio), ove racconta il viaggio in sidecar da Mosca a Parigi per ripercorrere la ritirata dell'armata di Napoleone. Fortunatamente si è ripreso ed è pronto a nuovi progetti.
Il libro suo migliore è certamente quello da cui è tratta la citazione iniziale, vale a dire Nelle foreste siberiane, apparso in Francia nel 2011 e in Italia l'anno dopo da Sellerio. È il racconto di sei mesi trascorsi in una capanna in mezzo ai boschi e ai ghiacci, in totale solitudine, sulle rive del lago Bajkal, a oltre cento chilometri di distanza dal primo villaggio abitato. Tesson si è portato dietro un numero cospicuo di libri di filosofia e letteratura (da Lucrezio a Baudelaire, da Eliade a Thoreau, da Conrad a Cendrars, tanto per citare alcuni autori), sapendo che la sfida principale sarebbe stata quella di trascorrere le giornate in silenzio totale, da puro eremita. D'inverno temperature che vanno sotto i trenta gradi, d'estate gli orsi che si avvicinano al lago: tutto ciò – si chiede sovente in questo diario – può procurare la felicità? Sì e no: egli è consapevole che la bellezza della natura non rende automaticamente migliore l'essere umano e che la teoria critica formulata da Emerson ed Ellul non sempre è vera: «Non è la densità abitativa del parco urbano a incattivire gli uomini, non è lo stress provocato dalla pressione commerciale a trasformarli in topi malevoli e rissosi. Qui al Bajkal, separati da decine di chilometri di costa, tra boschi magnifici, gli uomini litigano come i vicini di casa di una volgare megalopoli. Cambiate pure il contesto, la natura dei "fratelli" rimane la stessa».
Ciò nonostante, la ricchezza della sua esperienza è indubitabile e la sua rivolta contro lo stile di vita occidentale rivendicata fino in fondo. Così può scrivere: «La sobrietà dell'eremita consiste nel non lasciarsi sopraffare dagli oggetti e dalla presenza dei propri simili, nel disabituarsi a quello che un tempo gli era necessario. Il lusso dell'eremita è la bellezza. Dovunque posi lo sguardo, scopre uno splendore assoluto». E in un altro passaggio: «In fondo l'unico pericolo che minaccia l'eremita – a parte la vodka, gli orsi e le tempeste – è la sindrome di Stendhal: sentirsi venir meno davanti alla bellezza».
L'assurdità del consumismo esasperato gli si presenta un bel giorno quando un gruppo di russi arricchiti di Irkutsk arriva sul lago ghiacciato e lo percorre a bordo di rumorosissime 4x4 per provare un po' di ebbrezza. Tesson li osserva con un certo raccapriccio e torna al suo silenzio. «Meno si parla e più a lungo si vive», gli dice Jurij, uno dei pochi russi che vivono nelle vicinanze e che ogni tanto lo vanno a trovare. E lui altrove commenta il senso della sua giornata: «Oggi non ho fatto del male a nessuna creatura vivente di questo pianeta. Non fare del male: è strano che gli anacoreti del deserto non citino mai questa ragione quando spiegano la loro scelta di ritirarsi in solitudine». L'eremitismo diventa, senza alcuna superbia, filosofia di vita, a metà strada fra stoicismo e cristianesimo. Senza porsi l'obiettivo di distruggere la società (come vorrebbero gli squatter o gli hacker), ma standone lontano, «in un garbato diniego».
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