domenica 4 marzo 2007
Non bisogna vincere l'avversario, ma convincerlo. La tendenza a diminuire l'avversario è di per se stessa una testimonianza dell'inferiorità di chi ne è posseduto; si tende infatti a diminuire rabbiosamente l'avversario per poter credere di esserne decisamente vittoriosi. In questa tendenza è perciò insito oscuramente un giudizio sulla propria incapacità e debolezza. Ecco davanti a noi due voci che sostanzialmente s'intrecciano, pur nella diversità delle visioni ideologiche sottese. Certo, c'è anche un'esperienza biografica che accomuna i due personaggi così diversi tra loro: sia Gandhi che propone la prima frase, sia Antonio Gramsci, che ci offre in Passato e presente la seconda considerazione, furono oggetto di persecuzione da parte del potere repressivo. Acquista, dunque, più valore la loro testimonianza contro il ricorso alle stesse armi che quel potere adottava nei loro confronti. La violenza, infatti, non è segno di dignità ma neppure di forza. Chi cerca di demolire l'avversario, ricorrendo all'attacco feroce, alla denigrazione, allo scontro fisico rivela un'inferiorità e debolezza morale che invano cerca di coprire con la prevaricazione. Convincere l'altro, dialogare con lui, argomentare sul merito è molto più impegnativo e difficile che non trascinare l'avversario in una zuffa ove è solo l'ira e la forza bruta a prevalere. Abbiamo spesso in televisione esempi meschini di questo atteggiamento e l'effetto perverso che essi producono - anche quando si sa bene che sono risse appiccate ad arte e quindi fittizie - è quello di devastare, per imitazione, le relazioni sociali quotidiane. Mai come in questo tempo la maleducazione, il conflitto, il contrasto sono il vessillo inalberato sulla debolezza della ragione e della dignità personale.
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