venerdì 2 novembre 2018
Venticinque anni fa, il 31 ottobre, moriva Federico Fellini, il più grande e originale – con Rossellini suo mentore, e con Antonioni e con Pasolini – dei registi italiani, membri di una grande generazione internazionale di artisti di cui si ha, nella mediocrità presente, una immensa nostalgia. Furono registi in dialogo attivo con il loro tempo, e la cui arte non fu inferiore a quella dei grandi d'ogni arte del Novecento. Alcune loro opere le ho criticate e bistrattate – da spettatore, diciamo così, sessantottino – ma sempre rendendomi conto della loro importanza, e trovando nei loro autori un ascolto tanto polemico quanto, per certi versi, affettuoso, in particolare proprio con Fellini, a cui mi ha legato nei suoi ultimi anni una forte amicizia. Non è morto contento, Federico Fellini, ed è bene non dimenticarlo: Giulietta aveva un cancro irrimediabile, lui stesso era molto malato, e nessun produttore voleva più produrre i suoi film, troppo costosi per quello che avrebbero ormai ricavato. La voce della luna fu il suo estremo lavoro, meno caleidoscopico dei precedenti capolavori ma non meno denso e intenso. Ne ricordo in particolare la lunghissima parte della “fiera dello gnocco”, rappresentazione mirabolante di cosa stava diventando il nostro paese, non poco angosciandolo. Come uscire dalla strada che l'Italia (il suo popolo, che ci era parso un tempo meraviglioso) andava prendendo? Ponendosi di nuovo all'ascolto – dicevano i suoi bizzarri protagonisti, poetiche figure paesane di tradizione, quasi maschere pre-industriali – della “voce della luna”. E lì, al finale di quel film, che mi fa oggi pensare una grande mostra ospitata al Guggenheim di Venezia e che tutti dovrebbero vedere, dedicata all'opera di Osvaldo Licini, il pittore marchigiano-parigino che è stato uno dei più grandi degli anni del dopoguerra. Era stato capo partigiano e fu sindaco comunista del suo paese, Monte Vidon Corrado, fino alla morte l'11 ottobre del 1958, ma il Partito comunista non lo degnò di nessun riguardo, tutto preso com'era, in arte, dal “realismo socialista” e dal divo Guttuso (che un grande scultore, Mazzacurati, ebbe esagerando a definire “il tribuno illustrato”). Licini ha dipinto per tutta la sua vita “angeli ribelli” e ha dipinto lune. Il suo paese non era lontano da quello di Leopardi, come non lo era, benché già romagnolo, quello di Fellini. È alle lune di Leopardi che si pensa vedendo la mostra di Licini e rivedendo l'ultimo film di Fellini. Dovremmo davvero seguire i consigli di questi tre grandi, e di metterci nuovo all'ascolto – noi tutti di un'epoca tetra e balorda e forse, per nostra viltà e complicità, pre-finale – della “voce della luna”.
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