domenica 17 giugno 2007
La sacra passione dell'Amicizia è di così dolce, costante, leale, paziente natura che può durare tutta la vita, salvo richiesta di un prestito di denaro. Era considerato una malalingua, dovuta anche alla sua libertà di avventuriero, ma quando colpiva, coglieva sempre nel segno. È ciò che si nota anche nella frase che propongo per la nostra riflessione, attingendo (e non è la prima volta) allo scrittore americano ottocentesco Mark Twain, in questo caso al romanzo Wilson lo zuccone (1894). Attorno all'amicizia si sono intessuti panegirici di ogni genere e anche a ragione, a partire dalla Bibbia stessa («chi trova un amico, trova un tesoro» è già un proverbio evocato dal Siracide) o dai classici (chi non ricorda Orazio che definisce l'amico come animae dimidium meae, «metà dell'anima mia»?). Sta di fatto, però, che la debolezza umana rivela anche in questo terreno così florido la sua capacità avvelenatrice. E lo fa in tanti modi: si pensi solo all'invidia, quando l'amico ha un successo clamoroso. Twain ne ricorda uno implacabile: quello dell'inserire l'interesse economico all'interno di una relazione amicale. Di per sé, essere amici vuol dire anche sostenersi concretamente nei periodi difficili; eppure se di mezzo si mette un prestito, un certo gelo sembra subito pervadere quel rapporto prima così caloroso. Già Shakespeare nell'Amleto metteva in bocca a un suo personaggio queste parole: «Non prendere a prestito e non prestare, perché un prestito spesso perde se stesso e l'amico». Realismo, dirà qualcuno; è, però, triste riconoscere che il denaro abbia un tale primato e una simile forza distruttrice anche nei confronti delle realtà più limpide e alte della nostra vita.
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