Karius e i taleban della tastiera, nello sport e nella vita
mercoledì 30 maggio 2018
È il nuovo manicheismo, un nuovo modo di distinguere fra bene e male. Divedersi in due eserciti pare essere un gesto necessario, guai a manifestare indecisioni. Succede qualcosa ed è subito un duello: fuori le pistole e, finché non hanno smesso di fumare, guai a rimetterle nel cinturone. Può lo sport star fuori da una dinamica del genere? Certamente no. Lo sport è metafora perfetta, anzi perfino di più, è specchio perfetto del nostro modo di vedere il mondo. In una bella serata quasi estiva, milioni di italiani decidono di guardare alla televisione la finale di Champions League: Real Madrid-Liverpool. Naturalmente sarebbe già di per sé un bello spettacolo, ma ad aggiungere motivi di interesse ci sono milioni di tifosi orfani di una propria squadra che dentro a quei televisori avrebbe potuto esserci (il Real Madrid aveva eliminato la Juventus, il Liverpool la Roma). Altri sono tifosi inconsolabili, a un passo da un'estate che per la prima volta, dopo tempo immemorabile, sarà senza maglie azzurre al Mondiale.
Con questo stato d'animo, per carità senza generalizzare, il tifoso medio italiano si è seduto davanti al televisore sabato scorso. Il resto, come sempre, lo ha fatto la magia (qualche volta bianca, qualche volta nera) dello sport. Il protagonista della serata diventa il portiere del Liverpool: Loris Karius. Il ragazzo è tedesco, ha venticinque anni, è alto un metro e novanta, è super-tatuato, è bellissimo e ha una fidanzata bellissima, un lavoro da sogno, un mare di soldi e sta giocando la finale di Champions League. Insomma, in questo mondo ammalato di rabbia, ha già un sacco di elementi per poter essere odiato. Poi arrivano due sue papere colossali, di quelle che non passerebbero inosservate neanche all'oratorio. Solo che le fa in mondovisione. Finisce con Karius stravolto da lacrime che hanno tutta l'aria di essere sincere, da solo, sotto alla curva dei suoi tifosi a chiedere scusa. Inizia la commedia. Grottesca, ma pur sempre commedia. I social vengono presi d'assalto: tutti hanno la loro opinione su Karius, tutti diventano portieri, tutti pontificano come se avessero giocato una mezza dozzina di finali di Champions League, anche se la stragrande maggioranza, al solo mettere il naso in uno stadio con 70.000 persone (oltre a circa 350 milioni di persone davanti al televisore) scapperebbero a gambe levate negli spogliatoi a vomitare. In realtà vomitano sul serio, ma sui social. Vomitano giudizi, con la volgarità e lo squallore di ubriaconi cronici e recidivi.
Via agli schieramenti, tutti seduti dalla parte del giusto (aveva ragione Bertolt Brecht, i posti dalla parte del giusto sono sempre tutti occupati). C'è chi solidarizza con Karius, chi ne riconosce il dramma sportivo, chi si commuove davanti alle sue lacrime, chi si vede proiettato in mezzo a quei pali. Dall'altra parte c'è chi vede in Karius l'eroe che finalmente cade, il fake svelato, il brocco che si è trovato lì senza meriti, quello da prendere in giro, da bullizzare. Una specie di rivincita dell'uomo comune, capace di accanirsi senza dignità su un ragazzo al quale questi 90 minuti cambieranno per sempre la vita. Ma ormai non c'è più limite, né rispetto. Siamo peggio di avvoltoi che girano in tondo sulla testa di una preda, aspettando che diventi cadavere.
Il nostro manicheismo (o bipolarismo?) si manifesta nell'alternarsi fra il giocare il ruolo della preda e quello del predatore. E se ci fosse una terza via? Se semplicemente riscoprissimo il valore dell'equilibrio, delle valutazioni espresse con misura, magari perfino con educazione? Se scoprissimo che infilare i guantoni per giocare in una finale di Champions è una cosa diversa dal farlo nel torneo estivo con gli amici della spiaggia? Se rivalutassimo il fatto che spesso non siamo competenti delle cose che pretendiamo di giudicare? E se non ci sentissimo così coinvolti in vicende che, a forza, vogliamo far diventare nostre? Se la smettessimo di proiettare ego, nel bene e nel male, come quei genitori che nei campetti urlano contro all'arbitro, all'allenatore, agli avversari non per difendere il proprio figlio, ma perché vedono agire quelle figure contro un sé che deve poter sfogare una propria infinita frustrazione.
Armonia ed equilibrio, in arte, sono sinonimo di bellezza. Vengono i brividi a pensare che non ci sia poi troppa differenza fra la furia dei taleban che distruggono le opere d'arte e quelle dei taleban che battono tasti sulla tastiera di un computer.
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