venerdì 5 giugno 2020
Ritrovo con emozione un vecchio articolo di Ernesto De Martino, il massimo etnoantropologo italiano, pubblicato nel 1950 sulla rivista “Società” di Bilenchi e Muscetta e riprodotto con altri testi demartiniani in un volume curato da Stefano De Matteis, Il leone che cancella con la coda le tracce, pubblicato quattro anni fa per la Fondazione Premio Napoli e non facilmente rintracciabile. L'articolo in questione, Note lucane, racconta una discesa di De Martino nella Ràbata, il quartiere “arabo” di Tricarico sul fondo del paese. Scrive De Martino alla fine di questo sprofondamento,
della scoperta della
condizione e di una cultura, di un miserrimo mondo contadino: «Dopo il mio incontro con gli uomini della Ràbata, ho riflettuto che non c'era soltanto un problema loro, il problema della loro emancipazione, ma c'era anche il problema mio, il problema dell'intellettuale piccolo borghese del Mezzogiorno, con una certa tradizione e una certa “civiltà” assorbita nella scuola, e che si incontrava con questi uomini e donne ed era costretto per ciò stesso a un esame di coscienza, a diventare per così dire l'etnologo di se stesso. Dinanzi alla “rovina” della Ràbata tricaricense, dinanzi a tanta storia sconosciuta che si consuma in muto racconto, mentre su di voi si leva lo sguardo dolenti dei bambini rabatani, io ho provato un sentimento complesso al quale cercherò di dare un lume razionale». E prosegue raccontando di fatto una sorta di conversione: un sentimento, egli dice, che «non è l'antica pietà cristiana, anche se in me, come figlio della storia, la pietà cristiana non può essere passata invano. Il sentimento che realmente provo è anzitutto un angoscioso senso di colpa». Per De Martino, la discesa nella Ràbata è stata una sorta di via di Damasco, che ha deciso delle sue scelte e del suo futuro. Ebbene, posso dire di avere incontrato in questi mesi (ma anche prima) non pochi giovani che, in un tempo non meno tremendo del 1950 italiano e mondiale – e forse di più perché contrariamente a quello il nostro tempo sembra privo di prospettive, di vie d'uscita, di speranze e tanto meno di “rivoluzioni” – hanno scoperto un mondo che ignoravano: il mondo dei poveri, degli immigrati, dei soli, dei malati. Quel mondo che gli americani (un paese che se ne intende!) chiamano con disprezzo i losers, i perdenti. Che non sono altro che la controparte indispensabile al successo e al trionfo degli winners, dei vincenti. In mezzo c'è la maggioranza, nelle società più ricche, dei sopravviventi senza utopia, dei manipolati dai potenti, dei persi nella difesa di mediocri conquiste, di un precario star bene. La discesa nella Ràbata fu per De Martino una sorta di via di Damasco, ma per fortuna anche oggi non sono pochi quelli che, lungo una loro via di Damasco, hanno incontrato il dolore e la solitudine del loro prossimo, e questo sta cambiando la loro vita.
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