giovedì 6 luglio 2023
Il maestrale è calato e ora il mare di Gallura, tornato in pace, è di una indescrivibile limpidezza. Se lo guardo mi ipnotizza, in ogni istante diverso e cangiante sotto a un alito di vento tiepido. La linea blu della Corsica di fronte a me dopo il mezzogiorno scompare nella calura. Si palesa di nuovo al tramonto, color indaco ora: fantasmatica, vicina eppure lontana. All’una le famiglie con i bambini se ne vanno, non c’è più nessuno. Il confronto con il mare adesso si fa sottilmente inquietante: questa luce regale, lo sterminato orizzonte. Nella solitudine, davanti a un tale mare verrebbe da inginocchiarsi. (È per questo in fondo che anche io me ne vado, e torno a casa). C’è una presenza in questa infinita distesa di blu, senza nessuno, che non credo di sapere sostenere. Fronteggio qualcosa che mi affascina e spaventa. Ci sono due solitudini: quella malinconica e perfino disperata di chi avverte la mancanza di qualcuno. Oppure addirittura quella di chi si percepisce del tutto solo, senza alcuna speranza. È una solitudine che ho conosciuto bene, da giovane. Poi c’è tutta un’altra solitudine. La ho sperimentata da bambina, in lunghe estati in montagna. Ero sola eppure non ero sola: ogni cosa, l’erba alta nei campi, i fiori nell’orto, il silenzio della stalla odorosa ancora di letame e di fieno, ogni cosa mi pareva un segno. Ogni profumo, ogni goccia di resina sulle cortecce dei pini, ogni nuvola mi pareva non finire in sé, ma rimandare ad altro, a qualcosa d’altro. Ovviamente a otto anni non avrei saputo dirlo così. Ma era per questo che, sola, non ero affatto triste. E l’oscillare della pendola nella cucina dell’anziana padrona di casa, i capelli candidi, il viso solcato di rughe, non mi faceva paura. Il tempo davanti mi sembrava, a otto anni, sterminato. E comunque oltre, ne ero certa, non c’era il nulla, ma un mondo altro: che a tratti, per un istante, in un’alba sulle montagne radiose al primo sole, si svelava. Come vorrei ritrovare quello sguardo. Certo, ero piccola, non sapevo quasi nulla ancora del male: benché in casa fosse già passata, come una rapinatrice, la morte. Sapevo dunque che si può morire anche da bambine, e come il viso allora diventa bianco, e fredde le mani, e una sorella che ti ha cresciuto improvvisamente stia immota, non più la sua mano a tenere la tua. Non sapevo però il male del mondo, la guerra, la ferocia, la fame. Non sapevo di che cosa siamo capaci. Non c’era il Web a ricordarmi ogni giorno tutti questi martirii, vicini e lontani. Quindi il mondo per me, benché incomprensibilmente ferito dalla morte, era buono. In ogni cosa, un segno. Le laboriose fila di formiche che all’imbrunire disciplinate rientravano nel nido, quanto mi stupivano. L’acqua freschissima che giorno e notte incessante gorgogliava al lavatoio mi suggeriva l’esistenza di una fonte generosa e inesauribile. Le rose dell’orto poi, rigogliose, sgargianti, non erano forse una promessa? Anche se non sapevo di che cosa. Sì, una ferita assurda la morte: e tuttavia, il mondo mi pareva bello. Non che sapessi molto di Dio. A volte, la domenica si andava a Messa. Ma il Dio che tacitamente avvertivo in quei giorni d’estate, veniva prima. Come se non mi fosse stato insegnato, ma abitasse me, e tutti, da sempre. Ora, stamane questo mare sovrano
c’entra col Dio di quando ero bambina. Perché ora non sono più capace di stargli davanti, lieta e in pace? Vorrei darmi un compito per questa estate: tornare a sapere ascoltare il silenzio e la solitudine, senza avere paura. Ma è un lavoro, o è un dono questo sguardo, da domandare? Ho visto e saputo tante cose, e dolorose: mi sento così vecchia. «Come può un uomo rinascere quando è vecchio?» È un dono, credo, Nicodemo, coetaneo mio adesso, compagno:
ma un dono, da domandare in ginocchio. © riproduzione riservata
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