domenica 8 aprile 2007
Mi precipito al telefono ogni volta che suona, nella speranza, ogni volta delusa, che possa essere Dio che mi telefona, o almeno uno dei suoi angeli di segreteria. È stato uno dei maggiori esponenti del cosiddetto «teatro dell'assurdo»; ma negli anni antecedenti alla morte, avvenuta a Parigi nel 1994, il drammaturgo Eugène Ionesco, rumeno di nascita e francese di adozione e di lingua, si era accostato ai temi religiosi, come è attestato da questa sua curiosa testimonianza. Anche oggi, in questa giornata di luce di gioia, molte persone sono forse davanti a un telefono in attesa di uno squillo: nelle loro case mute, non c'è più una presenza né umana né divina. È il silenzio della solitudine, dell'abbandono, della vecchiaia, dell' estraneità. Invano si attende un segnale da Dio e dagli uomini. Quella che Ionesco rappresenta è, dunque, un'attesa più comune di quanto si pensi. Qualche volta non è lontana neppure da noi che forse siamo circondati da gente. Si ha, infatti, bisogno della voce di un angelo, cioè di una persona che ci ami, che si ricordi di noi con tenerezza e sincerità. Un poeta spagnolo, Pedro Solinas, diceva che «le mani di coloro che amano terminano in angeli». Ma c'è bisogno anche che Lui, il Risorto, ritorni a bussare alle nostre porte chiuse dalla paura. C'è il desiderio che, come agli apostoli in quella sera di Pasqua, Cristo ci auguri pace e ci colmi lo Spirito che è vita e amore; c'è la speranza che si sieda con noi a tavola a spezzare il pane. È questa la nostra invocazione e il nostro augurio per una Pasqua serena.
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