Imparare e insegnare, quel circolo virtuoso tracciato da don Milani
venerdì 10 marzo 2017
Torno volentieri sul tema scuola e sull'imparare come leggere e come scrivere. Sono comparsi sul Domenicale del Sole 24 Ore, prima un articolo del linguista Lorenzo Tomasin, poi l'intervento di un critico letterario, Carlo Ossola, e di un insegnante a vocazione totale e ininterrotta come Franco Lorenzoni. Ricordando il cinquantesimo anniversario di Lettera a una professoressa (1967) di don Lorenzo Milani, Tomasin difendeva «la professoressa» (cioè chi insegna onestamente e fra mille difficoltà) contro le troppe, automatiche e convenzionali accuse che dal Sessantotto in poi le sono state rivolte. Ossola ha insistito non meno giustamente nel chiarire che il libro e l'esperienza della scuola di Barbiana di don Milani avevano alle spalle una storia e intorno un contesto di iniziative varie, tra cui quella di Mario Lodi in Lombardia, di Danilo Dolci in Sicilia e di Emma Castelnuovo, che innovò l'insegnamento della matematica.
Dalla discussione sul pro e sul contro don Milani quello che dovrebbe anzitutto emergere è come ritrovare, elaborare, far crescere la passione e il dovere dell'insegnare e dell'apprendere, lavorando e comunicando con bambini e ragazzi. Noterei che saper insegnare è importante, ma imparare è qualcosa che avviene anche indipendentemente e fuori dalla scuola. Se chi insegna non impara a sua volta qualcosa nell'atto di insegnare e da coloro a cui insegna, il processo educativo si blocca e perde quella vitalità immediata di cui ha assoluto bisogno. Lo stesso insegnante dovrebbe saper dosare, quando insegna, attività e passività, comunicazione efficace e ascolto attento di coloro che ha di fronte. Se non avviene il contatto personale di curiosità e di fiducia fra insegnanti e studenti, se non si fonda il lavoro necessario su una motivazione a compierlo, a scuola finisce per non succedere nulla: o nient'altro che dissipazione, estraneità, noia.
La questione del rapporto tra don Milani e la cultura politica del Sessantotto è un altro problema. Lettera a una professoressa fu impugnato come arma polemica e programma da una parte (direi la migliore) del movimento studentesco, ma ovviamente si leggevano allora molti altri libri. Quello di don Milani era coerentemente e coraggiosamente cristiano e se parlava di figli dei poveri (penalizzati dalla scuola) e di figli dei ricchi (per i quali la scuola conta poco) non era perché don Milani fosse un feroce marxista che inculca l'odio di classe. Dove esistono i poveri e i ricchi, le distinzioni sociali sono un fatto di cui sarebbe ipocrita non tenere conto.
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